Archivio mensile:settembre 2011

Un gioco da ragazzi

Una palla rossa che rimbalza sul cemento. Tum. Due saltelli e poi dritta in cielo. Ricade morbida nel canestro. Stump. Le stesse mani che l’hanno lanciata la raccolgono mentre scivola via. Rocco è felice. Esorcizza i tiri con un ritornello. Una scemenza che gli ronza in testa. Canta e lancia. I suoi amici sono in ritardo. Ma lui oggi ha la chiave per andare avanti. Aspettare. Scavalcare il pomeriggio. La palla che prende le linee giuste. Canestro. Stump. Tum. Tum. Rimbalza. Palleggia. Mani. Campo. Mani. Canestro. Stump. Mani. Una volta sola e la chiamo Lola se non cola vola. Una volta sola e la chiamo Lola se non cola vola. Una scemenza. Ma gira, in testa, ronza. Avvolge. Gomma da masticare. Gnam gnam. Una volta sola e la chiamo Lola se non cola vola.

«Cazzo dici?».

«Niente. Una scemenza. Ce ne avete messo di tempo».

«Siamo stati in giro».

«A fare che?».

«Vieni appresso a noi».

Rocco preceduto dalla palla che gli rimbalza davanti gli va incontro. Su un lato del campo due ragazzini. Nervosi si guardano intorno: «Vulisse venì c’a palla?».

«Certo che no. La lancio sul balcone appena passiamo sotto casa».

«Nun passammo p’ ’o quartiere».

«E dove andiamo?».

«Allo zoo».

«A fare che?».

«A ’rrubbà ’na tigre».

«Ma scherzi?». Continua a leggere

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Intervallo

Ogni uomo ha la sua missione, la mia è scappare. Il vostro uomo, qui presente, è in grado di correre per ore senza fermarsi, si allena per questo. Il guaio è che la fuga dà assuefazione, cominciato una volta, non si riesce a smettere. E i centri per il recupero, sono rarissimi, si ha notizia di uno a Singapore e uno a Perth. La cura, è bizzarra, nel sito che ne illustra le modalità si parla di metalli di stagione, vasche sottoterra, sospiri incrociati e di una casa del vento dove passare le notti. Preferisco le credenze dei Tumma, (una minoranza del centro Africa) che considerano la fuga una situazione celeste, accomunandola all’assenza dei loro dei dalla terra, messi in fuga dalle bestie.  Che poi è tutta colpa della virilità dell’uomo se la fuga ha assunto una accezione negativa, che male c’è a sottrarsi? Anzi, suggerirei la nascita di un movimento revisionista capace di rivalutare la nobile arte della fuga. Con una attenzione particolare per i valorosi costruttori di scenari veloci di fuga, come chi è in grado di scavare una buca, aprirsi un varco, o anche solo correre in una direzione sconosciuta e in molti casi avversa. Continua a leggere

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Il salto, la vita

Il salto di Lampedusa (nel video) è considerato come il richiamo forzoso della natura, è detto anche salto di Ben o delle forze animali. È una azione che esiste da secoli in natura, dove ogni corpo può subire (e deve subire) una spinta portante che lo costringe a saltare. Se questo avviene davanti ad altri della stessa specie è anche un passo in avanti per effettuare il salto con cognizione, quando verrà richiesto. È divenuto obbligatorio solo negli ultimi anni, in prossimità dei confini o passaggi di specie (vengono indicate così questi territori di salto), e l’azione è denominata anche esonero di zona. Tutto cominciò con i cani messicani che costrinsero altri cani messicani alla forzosità del salto, in quel caso era un dislivello terroso. Nell’azione c’era la volontà di ribadire la supremazia del territorio di sopra su quello di sotto. Poi i casi registrati sono aumentanti, fino a raggiungere il genere umano. Per molti ricercatori l’atto è un utile modello di valutazione della civiltà e delle sue forme, c’è persino chi dice che senza il salto forzoso non può nascere la civiltà, altri invece sostengono che il salto determini proprio l’allontanamento dalla civiltà. Le zone di intrusione ed evasione rappresentano anche il confine tra posti avanzati (almeno in apparenza) e posti non avanzati. La modalità è davvero semplice, in riferimento agli ultimi anni: il corpo che prova a violare il territorio avanzato riceve una spinta che lo costringe al salto pari alla distanza che l’ha condotto dal suo paese al luogo di respingimento. Non vi ingannino le immagini, le figure che saltano e quindi fuggono, dopo aver creato tumulti e rivolte, devono per forza, subire questo percorso, è la loro crescita, e anche la testimonianza ai loro simili del ciclo da compiere. La sparizione dopo il salto, invece, e la conseguente immobilità di testimoni e attori che hanno spinto al salto, appartengono al silenzio, che è del tempo che viviamo.

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Tempo atmosferico umano

Walter Bonatti, uomo fatto per stare all’aperto. Negli anni non è cambiato, uguale come solo la pioggia. Quando morì tutti parlarono delle imprese ma era del suo corpo che bisognava dire. Ci sono uomini che sono delle cartoline del mondo, lui era così: un filo di ferro che si annodava alle rocce, il cielo pulito sopra la testa, e sotto, intorno: il vuoto. Il gelo non è riuscito ad avvolgerlo, lui graffiava il ghiaccio, bucava le pareti, passava, in generale. Aveva l’approvazione della natura. La maggior parte delle sue forme gli cedevano il passo. Volendo avrebbe potuto essere una corrente religiosa: quella della tenacia. E l’oggetto spirituale fondamentale, usato come unità di misura sarebbe stato il suo passo, la sua voglia di andare. Aveva dentro un flusso di potenziale divino che i suoi capelli bianchi, negli ultimi anni, denunciavano. A cucire le sue imprese, una dietro l’altra viene fuori una bandiera di sopravvivenza, bianca e blu, e state certi, nessun vento la tratterebbe male. Gli hanno attribuito morti in seguito alla sua iperattività, non era così, e la sua pazienza è stata più alta delle cime che si son lasciate scalare. Sembrava dire: qualsiasi cosa accade, rimango me stesso. La sua attività è stata produrre missioni, così vicine alla morte che nessuno pensava che lui potesse realmente morire. E il K2 è solo un capitolo, un frammento ventoso in una biografia di vasta forma, piena di colpi di scena. La sua vita dice a tutti che l’unica soluzione praticabile è vivere, viversi, quasi che l’esistenza fosse la combustione delle forme fisiche.

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Le ragazze del ring

C’è chi arriva per dimagrire, chi per trovare un lavoro, e chi, invece, perché la boxe è un vizio di famiglia. Palestra Excelsior di Marcianise, sul ring Viviana e Nunzia provano i loro pugni, sotto il maestro Brillantino – che sembra fatto di pietra – vigila, corregge, incita, più in là suo figlio Enzo, un maggiore gioco di sguardi, meno parole, stessa scuola del padre corretta a silenzi, come ogni giorno si occupa dei ragazzi, dall’altra parte MariaRosaria e Raffaella si allenano con i pesi, è un normale pomeriggio in una palestra che non è mai solo un luogo di sport, almeno non questa palestra. La boxe rende visibile quello che siamo, quello che vogliamo, e qui, oltre i ragazzi e i pugili famosi che son passati (da Angelo Musone a Clemente Russo), nelle ragazze si legge l’allegria per uno sport conquistato da poco, da prima volta, rinverdito, rispetto alla vecchia immagine di sporco e cattivo. La scommessa di Brillantino è questa. La boxe non ha colori tenui: o bianco o nero, ma qua si è scelto il rosa, si è spostato il ring da una parte diversa, e dopo aver tanto vinto con gli uomini (c’è una intera parete di stelle) ora si prova a farlo con le donne. In comune l’essenzialità di uno sport nudo, che per quanto si provi ad addolcire la primordialità dei gesti, rimane rozzamente affascinante. Continua a leggere

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