Le ragazze del ring

C’è chi arriva per dimagrire, chi per trovare un lavoro, e chi, invece, perché la boxe è un vizio di famiglia. Palestra Excelsior di Marcianise, sul ring Viviana e Nunzia provano i loro pugni, sotto il maestro Brillantino – che sembra fatto di pietra – vigila, corregge, incita, più in là suo figlio Enzo, un maggiore gioco di sguardi, meno parole, stessa scuola del padre corretta a silenzi, come ogni giorno si occupa dei ragazzi, dall’altra parte MariaRosaria e Raffaella si allenano con i pesi, è un normale pomeriggio in una palestra che non è mai solo un luogo di sport, almeno non questa palestra. La boxe rende visibile quello che siamo, quello che vogliamo, e qui, oltre i ragazzi e i pugili famosi che son passati (da Angelo Musone a Clemente Russo), nelle ragazze si legge l’allegria per uno sport conquistato da poco, da prima volta, rinverdito, rispetto alla vecchia immagine di sporco e cattivo. La scommessa di Brillantino è questa. La boxe non ha colori tenui: o bianco o nero, ma qua si è scelto il rosa, si è spostato il ring da una parte diversa, e dopo aver tanto vinto con gli uomini (c’è una intera parete di stelle) ora si prova a farlo con le donne. In comune l’essenzialità di uno sport nudo, che per quanto si provi ad addolcire la primordialità dei gesti, rimane rozzamente affascinante.

La boxe esclude sconnessione, odia lo sbando, non ammette vite a frastagli (quelle deragliano dopo per troppa libertà desiderata), sul ring si porta l’insicurezza dei mali subiti fuori e la si mette in mezzo per eliminarla, si combatte non solo con gli avversari ma soprattutto e prima con se stessi, poi con la disperazione e i pentimenti, se non sei stato alle corde non sai che vuol dire, se non cadi e perdi non puoi capire, se non provi il rimorso enorme di non essere riuscito a stringere tutto, a concretizzare il tuo dolore, e a metterlo in faccia al tuo avversario, se non perdi gli sforzi fatti, bruci i sacrifici e guardando dal basso il tuo angolo: capisci che devi ricominciare tutto daccapo, allora non puoi capire questa palestra, che è qualcosa che non sembra Italia, ma America. Perché è l’occasione. Il trampolino per andarsene, per avere un lavoro nell’esercito attraverso lo sport. Qui i muri trasudano voglia di andare, i bagni ti raccontano vite, speranze, ferite, di quelli che vengono ad allenarsi, per ogni borsa aperta c’è una mappa di dispiacere non voluto, anche semplice noia per un posto che è periferia, mescolati: vecchi e giovani, schiappe e campioni, in comune la famiglia Brillantino che ci mette l’educazione, non solo alle figure, ai pugni, ma alla vita e alla ricerca di uno stile. Il ring è un posto romantico quando lo racconti o lo guardi, ma «se arrivi lassù hai qualcosa che ti brucia dentro», come dice Viviana, la promessa (femminile) della palestra. Non è un bel posto, perché non puoi stare fermo, devi pensare velocemente, misurare il fiato e difenderti, puoi scegliere se per sottrazione o per carica. A guardare le ragazze capisci che loro hanno scelto il secondo metodo, non si lasciano niente indietro, nemmeno nell’allenamento, c’è competizione, grinta, rabbia. Poi, anche, sorrisi, al gong tornano quelle di prima, ragazze normali che per strada non diresti mai pugili. Asciugano il sudore, non pensano a niente per una manciata di secondi, e prima di riprendere: arriva il maestro a segnare i difetti, a elencare gli errori, posizione di braccia e gambe, colpi non dati, colpi presi, gong si riprende. Tutto da rifare. La boxe è anche gioco che fa rivivere l’infanzia, sul ring puoi abbandonarti, sul ring può buttarti a capofitto dimenticando quello che c’è fuori (e a Marcianise ce ne sono di cose da dimenticare a cominciare dalla camorra), ma non devi mai dimenticare la tecnica e quella ce ne vuole per avere la meglio sull’istinto (qui interviene Brillantino che scolpisce la tecnica dall’istinto: che va bene solo il primo giorno o per un colpo che ti salva, ma si vince per accumulo di tecnica non per colpi sentiti, i migliori sono quelli che non prendi), sulla voglia di tornare bambini, il quadrato potrebbe essere un giardino d’infanzia per quanti ne ha visti allegri scorrazzare trovando una dimensione e un motivo che fuori erano buio, anche un manicomio per quelli che non capivano che era ora di smettere e di uscire. L’Excelsior non è solo una palestra, è anche un porto: di speranze, occasioni, un approdo per molti, una chiesa (di una volta): sempre aperta, dove ci vai perché sai che troverai sempre da guardare e immaginare (la boxe è come il mare, il fuoco, la guerra, puoi stare ore a guardare senza stancarti, è calamita di sguardi, vive per gli occhi che le stanno intorno), mentre i ragazzi corrono, le ragazze occupano il ring, Brillantino trova anche il tempo per aiutare i più piccoli a fare i compiti col suo inglese da Little Italy, passano le mamme a guardare, il padre di Nunzia discreto in un angolo ammira la figlia allenarsi. Le ragazze le conti su una mano, sono il nuovo corso, i ragazzi un esercito di passaggio che viene a provare un po’ per passione un po’ per disperazione. Le ragazze no, hanno le idee precise, vogliono combattere, migliorarsi, primeggiare. Sacrifici motivati, obiettivi precisi. Parlano della boxe come di una persona, quasi un angelo custode che si è finalmente materializzato nelle loro vite, riuscendo a farle andare oltre, in qualche caso a farle sentire donne, ha dato una mano a smaltire il malessere, per tutte è una presenza che non ti molla, un amuleto grande come una casa e ancora non basta, quasi un’altra vita che ti porti dietro.

Il merito è di Domenico Brillantino che nessuno chiama per nome, il rispetto è da samurai, (69 anni e una vita di boxe), 3 figli di cui due ottimi pugili (Antonio ed Enzo), l’allenatore che tutti vorrebbero, vero, duro senza perdere la tenerezza, che sarebbe piaciuto a F.X.Toole, perché molto simile a Cus D’Amato, uno al quale basta guardarlo un pugile per capire se andrà avanti o no, se c’è da tirar fuori qualcosa o da non perdere tempo. Spietato, come solo chi è saggio e conosce la vita in larghezza. La sua regola è semplice: prima l’uomo, poi l’atleta infine il pugile. Se viene a mancare una delle tre condizioni si crolla. E il fatto che non sia così per dire lo capisci immediatamente, gli basta uno sguardo per incenerire uno in errore, per lui la boxe è religione, gli allenamenti esercizi spirituali, le discussioni teologia. La palestra il suo mondo. E i risultati stanno sui muri: coppe, medaglie, titoli, ma vengono dopo, Brillantino va orgoglioso dei successi privati che non si vedono, con i ragazzi ora uomini, passati di qua, che sono scesi dal ring, hanno perso anche, preso strade sbagliate, finiti in galera, e da lì scrivono, trovando in lui, oltre il vecchio maestro, un padre, un ascolto, e dalle celle gli danno ragione al di là delle sentenze dei tribunali e dei pugni di Alì. Brillantino è fuori dal tempo, suscettibile, diffidente, verso la decadenza del suo sport e la gente che sta intorno – gli incontri quasi sempre si fanno in provincia, la boxe è uno sport di provincia che ti porta in città o sul tetto del mondo –, sa che l’ambiente del pugilato è pieno di ombre, e più diventa un programma del palinsesto notturno più si sporca, lui prova con molti sacrifici a tenersi fuori, e con sé trascina anche atleti e atlete, che ovvio sono suoi. L’unico che trova stima, amicizia, rispetto, in petto in testa e sulla sua scrivania (in una vecchia foto) è Nino Benvenuti, ed è cosciente che «con Tyson è morta la parte buona del pugilato americano». Sul professionismo, dal lato opposto, non per ideologia ma per moralità, la pensa come i cubani: «non c’è speranza, uccidono lo sport in nome dei soldi». Brillantino non è uno di quelli che da ex pugile ti raccontano imprese fantastiche, incontri, serate, no, dice poco, e non sta mai fermo, c’è sempre qualcos’altro da fare, gli fai una domanda, se ne va, torna e ti dice: «noi diamo un futuro ai ragazzi, la politica no», intanto si occupa di una porta che si è rotta, di un peso che manca, di un sacco che si sta sganciando, e lo perdi di nuovo. Raffaella Parricella (63 kg, 17 anni guardia destra, due incontri uno perso uno vinto), invece, è difficile perderla, con la sua kefiah al collo, il passo deciso e la calma di chi da due anni ha la boxe dentro, nonostante la paura della solitudine ma non tra le corde «quando sono sul ring dimentico tutto». Faccia pulita, spigliata, dubbiosa, Laila Alì e Clemente Russo come esempi, Moccia e “Tre metri sopra il cielo” per raccontarsi, «non so cosa voglio dalla boxe, la pratico per sentirmi bene», si allena ogni giorno per due ore, oltre a correre la mattina, anche se dopo il primo incontro perso non voleva più saperne. Succede a tutti, il battesimo della sconfitta ti fa vedere quello che ignori quando ci sei dentro: il mare di sacrifici.

Chi li conosce bene è Nunzia Patti (19 anni, 60 kg, nel 2007 campionessa italiana cadette, guardia destra, otto incontri: sei vinti, uno pareggiato, uno perso), la prima donna della palestra, arrivata 5 anni fa, perché la boxe è una abitudine di famiglia: cugini, zii, fratello. Perché non provare? «Ne avevo di boxe vista negli occhi, conoscevo le regole, mi sono messa in gioco». Nunzia sembra una ragazza sudamericana, scura di pelle, veloce, inquieta, quando può si riguarda “L’esorcista”(il suo film preferito) nelle letture sta tra Leopardi e Baudelaire, non ti guarda mai, parla e si allena, non perde tempo, lei che ha persino provato a smettere «per amore», dice sottovoce, il fidanzato non voleva vederla con i lividi in faccia «succede, e per chi non tira pugni sembra una tragedia, per noi è normale, ma non credo che sia questo a fare una donna». Il sogno è andare alla olimpiadi, il futuro: mamma e pugile, «ora non smetto più. Sono una pugile senza ripensamenti, almeno sul ring». Ride. E con lei MariaRosaria Stellato (16 anni, 52 kg, guardia sinistra, due incontri, due vittorie), «prima di arrivare all’Excelsior, ero chiusa, avevo il dolore di aver perso mio padre, ed ho seguito i miei fratelli che boxavano», è piccola, minuta, esile, per lei c’è un prima della boxe e un dopo: «avevo paura delle avversarie più alte, ma dopo aver vinto contro due alte, mi è passata», conta sul pugilato per entrare nelle fiamme oro. Poi c’è Carla Cirillo (28 anni) che ha cominciato tardi, per un amore finito male. Non ha ancora combattuto ma muore dalla voglia di farlo. Ricercatrice alla facoltà di Farmacia della Federico II. «È stata una scelta d’istinto, io che avevo paura del buio ora non voglio scendere dal ring». Carla, in palestra viene da pochi mesi, si vede che è ancora rigida, quasi impacciata, ma si vede anche che sputa l’anima, e che è decisa «non pensavo fosse così difficile», in famiglia le sorelle (ne ha tre) hanno cominciato prendendola in giro adesso si sono arrese alla determinazione. «Con la boxe ho più stima di me». Legge Dostoevskij ama Kubrick, insomma appartiene a un mondo differente, eppure si è integrata, è stata avvolta dalla nuvola di sudore che dopo le cinque del pomeriggio staziona nella palestra.

In un angolo ad alzare pesi, sotto la finestra, colpita dalla luce, Viviana Tuccillo Castaldo (25 anni, 64 kg, cinque incontri: due vinti, uno pareggiato e due persi «ingiustamente» dice lei, e capisci subito che non si tiene niente, che deve svoltare per questo è qui, mica per gioco, «qua respiro, il pugilato per me è aria pura»). Viviana non è di Marcianise, è la straniera del gruppo, viene da Cimitile (un treno e molti chilometri a piedi). «Nessuno deve mettersi tra me e la boxe». E se le chiedi l’obiettivo, lei scarta olimpiadi e titoli, e risponde: «mia madre, deve venire a vedermi, devo convincerla della bontà della boxe». Viviana pratica il pugilato da un anno e mezzo, ma è quella che lo racconta meglio, ci sta dentro, ne conosce l’epicità, si vede che la sua scelta è molto ragionata, la sua adesione totale, se ne starebbe ore a raccontarti come è contenta quando sa prevedere l’avversaria, quando sente il suo nome gridato, quando mette piede in palestra e si sente in famiglia, e di come sudando, consumando il tempo al sacco, si senta viva. Bisogna vederla combattere, lei tira pugni con colonna sonora, urla più di una tennista, accompagna i colpi con la voce, magari non andrà da nessuna parte, ma ora, qui, è la boxe. E il resto non conta. Ha avuto la determinazione di dimagrire venti chili, di fregarsene delle distanze, e anche di perdere. «Se hai la forza di tornare ad allenarti dopo aver perso, sei un campione». Viviana ha avuto “un’infanzia igienicamente perfetta, morbillo, tristezza e nessun’altra malattia”, a 16 anni è andata in Germania a lavorare nel ristorante dello zio, è tornata ha studiato, si è laureata, ma ha sua “Rosebud” come il Kane di “Quarto potere” di Orson Welles, per questo sta sul ring, per inseguire un giocattolo (una cucina per bimbi) che stava nel negozio dei suoi genitori, desiderato per Natale, e venduto all’ultimo giorno per esigenze che una bambina non può capire, ma che si porta dentro, un vuoto creato dalla violenza dei soldi. Dopo è arrivato il divorzio dei suoi e la caduta economica. Lei sa incassare, cadere e rialzarsi. Oggi, dice che «il coraggio sta nel salire sul ring: la prima volta ero agitata, la seconda avevo timore, la terza volevo vincere a tutti i costi» ma è per quel giocattolo che lei non sente il resto. «La mia paura più grande è che tutto finisca prima che io possa vederlo, nella boxe ho paura di provare troppa paura perchè immobilizza, ma la giusta dose fa rispettare l’avversario e combattere lealmente». È per quel giocattolo che non guarda l’orologio, che corre e suda e tira su pesi e lascia partire ganci, ma è presto per capirlo. La boxe ha un suo tempo, fuori dal tempo, quando combatti: una ripresa può essere più lunga della vita e c’è il rischio di dare troppa importanza alle proprie sventure. 

 

Foto: MariaVittoria Trovato, http://www.mariavittoriatrovato.com/

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