La giornata di un venditore d’auto a Buenos Aires

Posò la bacinella davanti allo specchio. Alzò gli occhi. Vide le sue guance flaccide. Le occhiaie che giravano scure. I peli scomposti sul viso. Slacciò la vestaglia gialla che larga gli cadeva addosso. A torso nudo rimase in attesa di sbarbarsi. Fuori la pioggia non invitava a uscire. Sul letto c’era il suo completo blu. La cravatta e i calzini sulla sedia accanto. Si voltò a rassicurarli. Quel pensiero era scomparso. A breve avrebbe saltellato fino alla galleria “Pacifico”. Pronto al temporale. Al giro di quel giorno. Alla routine del lavoro. Tornò alla sua faccia. Paziente. Insaponò il viso. Occhi chiusi. Le mani passavano lente la schiuma. I peli ispidi sotto la linea della mascella divenivano bianchi. Coperti. I tetti di fronte. Scuri d’acqua. Umidi. Gli diedero un brivido. Le guance lisce che prendevano forma nello specchio. L’ombra nera che macchiava la bacinella. In ordine sparso. L’acqua da stagno. Gorgo bianco. Isole di schiuma vagavano nel cerchio chiuso della bacinella. Profili tignosi. In un oblò di vapore emergeva il viso di un vecchio. Pensò. La prima volta. La faccia andava deformandosi. Le linee si ammorbidivano. Il collo cedeva. Le labbra sabbiose, crespe. Segnate dall’uso. Rise, facendo salire le guance cadenti. Gli zigomi stanchi. Richiuse gli occhi. Liscio. Profumato si mise a sedere sul letto. Infilò i calzoni. Scalzo si diresse nell’altra stanza in cerca di  una sigaretta. I piedi punti dal freddo. Incurante. Trovò il pacchetto, ne fece scivolare fuori una e l’accese, poi aspirò con avidità. Aspirò. E poi lasciò salire il fumo. Quasi fosse la risposta a quel pensiero. Unica irrimediabile azione. Con calma finì di vestirsi. Uscì lasciando tutto com’era. Nessuna fretta. Nessuna esigenza. Era un uomo solo. Libero di lasciarsi il disordine alle spalle. Davanti, invece, c’era un cieco che martellava la strada. Un bastone impugnato con forza in una mano. Tintinnando accompagnava i suoi passi. Nell’altra un ombrello rosso spiccava nel grigio di quel giorno. Luce. Lui rimase sorpreso. Non aveva mai visto un cieco sotto la pioggia destreggiarsi in quel modo. Abile, svelto, irreale. Procedeva spedito, ticchettando come un vecchio telegrafo. Senza potersi immalinconire per quel paesaggio desolato. Vestito di tutto punto. Con un impermeabile MacIntosh. Fiore. Stelo di classe. Bocciolo colorato.Bagnato dalla pioggia morbida di Buenos Aires. Soffice carezza d’umidità. I suoi occhi rapiti da quello spettacolo. Regalo. Compenso. Per una triste mattina di pensieri anomali e paradossali. Svoltò, su di giri. Contento di aver potuto assistere a quel passaggio. Felice di poterlo raccontare: «Sai c’era un cieco elegante sotto la pioggia con un ombrello rosso fuoco che suonava la città». Mezz’ora dopo era dietro la sua scrivania pronto per vendere auto e certezze. Anche per accogliere scommesse, ma quella era passione che nascondeva nel primo cassetto. Certo, negli ultimi tempi meglio le scommesse delle auto. Ma bene uguale. Sulla scrivania c’era il giornale aperto alla pagina sportiva: tutta per Osvaldo Pugliese, un moccioso con la faccia da Brando e i capelli da zingaro. Un portento. Prossimo campione. Promessa mantenuta. Nell’altra pagina c’era un’intervista a Roberto Moneo. Il pugile tornava a parlare e lo faceva per dire bene di quel moccioso. Sorprendente. Sarebbero piovute scommesse. Il moccioso veniva da due incontri vinti con facilità, troppa per i suoi gusti. Ma bisognava riconoscergli il talento. Acerbo. Da coltivare, ma già si scorgeva tutto. Quando colpiva alla figura era molto, molto difficile resistere. Sembrava correre, andare di fretta. Pedalava sul ring quel ragazzo. Ossigeno da vendere. In più, alle spalle, aveva un matto yankee come Philip McCourt. Uno che sapeva stare in piedi ovunque.  Non c’era dubbio quel moccioso aveva tutte le carte in regola per farcela. E se si scomodava Moneo dal suo silenzio, qualche motivo doveva pur esserci. Valido, s’intende. E aveva a che fare con la boxe. Quella vera. Bisognava stare in guardia. Quel moccioso fra un paio d’incontri o pure meno: provava il gran colpo. Con le spalle coperte e un buon diretto. Pippo el gordo, enormemente sorpreso di trovarsi di fronte Raul Tuñon. Si era fermato. Ricordava bene quell’uomo. Prima di avvicinarsi controlla le indicazioni. Cauto si avvia, dopo un lungo respiro. È tutto davvero molto strano. Trovarsi un militare, uno di quelli che se ne andava in giro a prelevare ragazzi, venditore d’auto e raccogli-scommesse. Come mai non è rimasto nell’esercito? Continua il doppio gioco? Domande inutili, si disse. Quando l’uomo lo vide non ci fu bisogno di parole. Lo salutò con uno strano entusiasmo.«Pippo el gordo, il miglior cuoco di Buenos Aires, che ci fai da queste parti? Vuoi una macchina?» «Non proprio».«Che ti serve amico?» «Ho saputo che ti interessi di sport». «Come te la passi?» «Tu come mi trovi?» «In carne come sempre». Poi a voce bassa aggiunse: «anche tu vuoi scommettere sul moccioso?» «Ovvio che no. Contro». «Ora ti riconosco, tano di merda». Pippo gli sussurrò la cifra mentre giravano intorno a un vecchia Ford Torino tirata a nuovo. «Ti sei piazzato, brutta canaglia, come hai fatto?» Infilandogli i soldi nella tasca della giacca. «Ho smesso. Lasciato tutto». «E la notte riesci a dormire?» «Non è la notte che mette terrore. Ma il giorno. Ho una fottuta paura quando esco di casa. Mi aspetto sempre che un padre, un fratello, una madre di quei figli di puttana venga a rendermi il favore». «E perché dovrebbero con te? In giro ce ne sono tanti come te, molti anche in servizio». «Non ho ucciso nessuno, mi limitavo a prelevarli e consegnarli. Ma in casa c’entravo a volto scoperto, e in quei momenti un viso non te lo scordi». «Questo paese ha dimenticato tutto, vuoi che si ricordi il tuo viso merdoso?» «Io per sicurezza giro sempre armato». Rispose l’uomo strizzando un occhio mentre scostava la giacca per mostrare l’arma.

 

Photo Q. Sakamaki,  http://www.qsakamaki.com/

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