Miami Police Department

C’è la vita e poi ci sono i format che le rubano le battute, i personaggi, le storie. Il resto lo fanno le città e le guerre. L’esercito e la polizia sono due colonne su cui poggia il cinema americano e buona parte delle serie tv. E si finisce per dimenticare che la realtà è sempre meglio della finzione, che non ha la strada segnata da una sceneggiatura, né i titoli di coda che scendono dall’alto. A New York ti senti sempre in un film, a Miami in un telefilm. Miami vice, Csi Miami, Dexter, The First48, uno si chiede come sono i veri detective?
In giro con l’agente Rojas
Cominciamo dal basso, dalla strada, ci son passati tutti. Salgo sull’auto 27107, con l’agente Jorge Rojas (46anni), giriamo per la Downtown. Rojas è arrivato da Cuba quando aveva quattro anni, immagina di tornarci da vecchio. Sembra un giorno normale, poi tutto accelera: chiamata sirena lampeggiante, c’è una rapina, zona Overtown, un uomo è ferito, rapinatori in fuga, quando arriviamo, sì, c’è una scena da film, le auto come la nostra di traverso in tutto l’isolato, il nastro che segna la zona, l’elicottero che la sorvola, un uomo in una pozza di sangue. Rojas completa col nastro una parte rimasta scoperta, l’uomo viene portato via in ambulanza «ora tocca ai detective dell’antirapine». Riprendiamo la strada. Mi parla di sua figlia Camila, e quando compare sul pc dell’auto una nuova chiamata per una lite familiare «mi sto separando, questo è il tipo di storie che non vorrei mi capitassero». La scena sembra scritta da Richard Ford: c’è già l’agente Jones che sta allontanando l’uomo, la moglie lo guarda dall’uscio, lui, due buste trasparenti con la sua roba e le carica in auto. È un arabo, è stato già allontanato da casa per aver picchiato moglie e figli. C’è caldo, si suda, sembra un dejà-vu, da set a realtà, tutto molto lento, dilatato, all’improvviso: l’uomo comincia a protestare, svogliatamente, sembra reciti, offende l’agente Jones che è donna e nera, e cerca di toglierle la pistola, viene colpito da lei, immobilizzato da Rojas e ammanettato. Un attimo di violenza dell’uomo che non voleva prendere ordini da una donna. Rojas mi guarda, e sorridendo: «capisci perché dopo tre quattro anni di pensione, ci viene un infarto? Sono tutti gli sbalzi di momenti come questo». Il resto della giornata: una donna nuda che ha occupato un palazzo, un incidente stradale, palme, chilometri, improvvisa pioggia. Quando rientriamo alla stazione, Rojas, con una faccia da DeNirotriste, mi dice: « l’uomo del supermercato non ce l’ha fatta».
Squadra Antirapine
Thomas Murray (30 anni) è il detective nero che ti aspetti, faccia Miamivice. Jeffrey Nicolas (29 anni), invece, ha la camicia come la sua. Stessa pelle, stessa auto, stesso dipartimento, vita in comune anche fuori dal lavoro. Però Jeffrey è reduce dall’Iraq e prende tutto con calma. «Ci dovevo andare per forza, ero militare. Il battesimo del fuoco? In mutande di notte, presero a spararci addosso». Thomas ha la tensione di un giocatore di basket. Tutte le mattine come un mantra suo figlio gli chiede: «A chi spari oggi papà?» e lui: «A nessuno, tranquillo». Jeffrey corre solo se è davvero necessario «sono più riflessivo», ironico. Come ti vedi tra venti anni? «Morto, prima o poi qualcuno mi spara, è un dato». Sono un incastro. Per dieci ore al giorno, a 25$ all’ora, gli toccato 6-7 rapine. Loro non girano, agiscono su chiamata. Ci tengono a farmi entrare ad Overtown «il lato di Miami che non vedi mai in tv». Case basse appassite come basilico secco, palme spelacchiate, un deserto di fantasmi soffiato a rabbia.
Squadra omicidi
Joseph Schillaci, capelli impomatati, baffetti clarkgable, mastica una gomma con la bocca aperta come porta la pistola bene in vista, l’aspetto molto Scorsese, da poco ha lasciato la omicidi, per andare a fare il supervisor, tutti mi parlano di lui. E non perché ha origini italiane. «La mia carriera è stata come un congegno meccanico pensato per lavorare in strada. E ha funzionato. Mi ricordo tutti i morti visti, i casi risolti e quelli non, i colpevoli e quelli che non lo erano. Alla fine, si riduce a un lungo elenco di vivi e morti, e io che cammino in mezzo». Gli hanno sparato, ha colpito. Ma continua a ripetere «ogni giorno in più è un giorno regalato, per fare questo lavoro ci vuole passione per la vita, perché incontri spesso la morte». A lui si aggiungono Ricardo John (39 anni), detective, omone nero, nella parte del poliziotto buono, e il suo collega di squadra (alla omicidi ce ne sono sei da tre) il detective Anthony Reyes (43 anni) che ricorda Anthony LaPaglia in “Lantana”, qui nella parte del cattivo. «Si uccide per i soldi, la droga, il sesso. Il resto lo fa il paese: questa è la Florida, tante razze insieme, e gli scontri non mancano mai». Siamo seduti nella stanza dove di solito fanno gli interrogatori. Ricardo: «non lavoro solo per la città di Miami, lavoro per il mondo, se il reato scappa da qui diventa un problema di tutti». A Miami lo scorso anno ci sono stati 1397 omicidi. Sembra che il male sia di casa. Antony: «diciamo che ci viene spesso». Ricardo: «sì, tutti i giorni guardiamo in faccia il male. Ma questo esercizio ci ha reso migliori, ci ha fatto apprezzare la vita, nonostante le cicatrici sull’anima che ci lasciano le storie, ogni volta ti dici: non c’è niente di peggio ma poi il delitto dopo sei lì di nuovo a dirti la stessa cosa». Non guardano la tv, non sopportano l’esasperazione americana per il tempo «se hai appena visto un bimbo morto, non ti preoccupi di un uragano». Entrambi credono in Dio, «non ne puoi fare a meno, se sei il Bene devi anche avere qualcuno da pregare quando le cose si mettono male. Ogni caso è una avventura e la natura umana: un mistero». E su mistero, Ricardo, racconta di avere un fratello all’ergastolo «voleva fare soldi facili. E ora siamo in due parti diverse. Però questa storia mi aiuta nella ricerca quotidiana della verità. Negli interrogatori ripeto: non mi dire niente, ma non mentire, perché lo sento. Sì, anche il sesto senso, aiuta, col tempo lo sviluppi. Anni fa, cercavamo il corpo di una donna, e ogni volta che andavo a casa sua passavo sempre per un parcheggio, quasi un riflesso condizionato, e alle fine è lì che l’abbiam trovata. Una coincidenza, ma aiuta sapere che te lo sentivi». Antony per tenere fede alla sua parte, lo interrompe: «vuoi sapere i guai della tv? C’è gente che chiama alla Omicidi per chiedere di Horacio Caine, quello di Csi Miami».La famiglia di un detective della omicidi è fondamentale per l’equilibrio. È l’unica difesa che ha. È il mondo perfetto, dove cercare di non far entrare il male, nei film sono sempre in crisi. «Nessuna morte è perfetta, nessun crimine è perfetto, figuriamoci una famiglia». Quale è la prima cosa da fare sulla scena di un crimine? «Un passo indietro. Per avere una visione d’insieme».
La vera Csi
«La differenza con la Csi televisiva sta nell’odore e nella crudeltà delle scene, che nessuna telecamera può restituire». Lazaro R. Fernandez (46 anni), supervisor Csi, la vera (Crime scene investigations), mette in chiaro le cose. «La serie tv ha fatto molti danni, la gente si è convinta che si possano risolvere crimini in 24-48 ore, invece ci sono storie che nemmeno in 48 anni si riesce». Mi porta in giro per i laboratori e ironizza: «come vedi non posso ancora guardare negli occhi delle vittime e vederci il volto dell’assassino né gettare per aria le loro budella e leggerci la vita».
Tamayo
Emiliano Tamayo (54 anni), capelli bianchi, baffi pure, aria compassata. Lo incontro all’accademia di polizia, lo premiano tra bimbi rispettosi e poliziotti che vanno in pensione, quando arriva il suo turno tutti si alzano in piedi, ha risolto un caso dopo dieci anni. Loro applaudono, io penso: è la storia. Gli chiedo di raccontare. Andiamo nel suo ufficio, prende una grossa scatola che ci starebbe un televisore, e tira fuori la vita passata di Cynteria Phillips (13 anni), quella che sarebbe diventata una Rihanna, se non avesse incontrato l’uomo sbagliato, il 15 agosto 2000. «Mi sarei fatto tagliare un braccio per questa storia. Quella ragazzina poteva essere mia figlia. È stata picchiata violentemente, stuprata e soffocata». Nelle foto Cynteria, è nuda, gettata su un prato, scomposta. «Non ti mostro le foto per voyeurismo, ma perché qui c’è l’unico indizio che avevo: nell’interno coscia della ragazza c’era il segno di un’unghia, quella dell’assassino, e poi il suo seme e i resti della sua pelle sotto l’unghia della ragazza. Ma non era schedato. Poteva essere chiunque. Non c’erano piste, anche se per dieci anni ogni mattina ho detto a sua madre che ne avevo. Quella ragazza era la mia domanda per tutti. Ho raccontato la modalità d’azione dell’assassino, sperando che si ripetesse. Una mattina mi chiamano, dice abbiam fermato un operaio, Gregory Lamart Martin (40anni), che ha picchiato la sua compagna, l’ha stuprata e ha cercato di soffocarla, lei è solo svenuta, lui l’ha creduta morta. Dentro di me, ho sentito qualcosa muoversi, che mi diceva è l’assassino. Mentre la scientifica esaminava il suo dna, l’ho interrogato per dieci ore, fino a che non è crollato. Una confessione è come l’orgasmo, l’investigazione è diversa, è un dialogo con la vittima, che avviene solo se sai guardare, se sei disposto a perdere molto tempo». Che cosa hai fatto dopo? «Sono tornato alla realtà, al caso successivo».

Foto di Maria Vittoria Trovato

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