È uno di quelli che conservano i numeri di ieri, per questo lo trovano sempre quando serve. Il suo prefisso è 3-5-2, viene da lontano, è fuori tempo, quindi è giusto per le squadre che hanno sbagliato stagione. È il subentratore, Edy Reja, faccia da Bartali, naso come una salita, curve a gomito intorno agli occhi, poche le gite. L’ultimo highlander di un calcio che è passato, quando giocava lui le maglie avevano il bottone come le camicie. È il nonno del campionato. Non è solo un allenatore, è uno di cui fidarsi, sì, da lui compreresti anche una squadra che ha sbagliato campionato, come la Lazio di Petkovic, quello che era stato scelto «perché è poliglotta e ha lavorato alla Caritas», parola di Lotito, il presidente che chiederebbe al Papa il T9 del latino per i telefonini. Reja no, non ha lavorato alla Caritas anche se il suo giro di squadre è da fronte del calcio, per le lingue forse potrebbe giocarsela, da uomo di confine, ma se c’è una cosa che può insegnare a tutti – e lo sanno anche in Svizzera – è il rispetto. Chiedetelo ai suoi calciatori, a cominciare da Zola. E non per questo De Laurentiis lo soprannominò Clint Eastwood, quanto per una scarnezza di opere pensieri e azioni, che andavano dritti all’obiettivo: portare a casa una stagione dignitosa, senza omissioni, e Lotito lo sa, per questo l’ha richiamato, per questo ha detto: «Signori si s-cambia» – come uno Zamparini qualsiasi – ed ha scelto l’usato sicuro, un vecchio nuovo allenatore: con soli quattro anni in meno di Ferguson – che però si è messo in modalità tribuna –. Reja no, è una sorta di Camilleri del pallone, arrivato tardi ai riconoscimenti, vuole goderne ancora, e non per fame o ambizione, quanto per unicità di ruolo, per conoscenza delle difficoltà che lo sport crea, e capacità di saperne uscire: qualcosa di molto simile ai bassifondi di certe città. È uno di provincia, sa come comportarsi, è la guida perfetta per rimettersi in carreggiata. Non è questione di contratto o di tempo, è che non ha ancora detto basta a se stesso, non si è ancora accontentato. Sparge certezze dove ci sono mancanze, rimette ordine dove si era creato il caos. Reja è geometria piana, calcio elementare. La sua biografia è fatta di geografia spiccia, dal Molinella alla Lazio, passando per Verona, Bologna, Lecce, Brescia, Pescara, Torino, Vicenza, Genoa, Catania, Cagliari, Napoli, Spalato. Appartiene a un genere di allenatore che è in via di estinzione, il subentrallenatore, quello che piova o ci sia il sole, fuoriclasse o meno, ti salva il campionato. Ha 68 anni e un mucchio di partite giocate e guidate, partendo dalla Spal, con Edmondo Fabbri che allenava e dove giocava con Capello che è la sua versione estroversa ed esterofila, con aggiunta di trofei e sottrazione del rispetto (non sarebbe mai andato via di notte da Roma e Torino). Reja è uno da trincea, ha bisogno del fango, specializzato in situazioni disagiate, per la seconda volta subentra sulla panchina della Lazio, nel 2010 sostituì Davide Ballardini ora gli tocca far dimenticare il bosniaco Petkovic che da luglio ha una stanza prenotata a suo nome in Svizzera, guiderà la nazionale elvetica. Ecco Reja non ha mai avuto nulla di prenotato, è sempre stato uno dal futuro incerto, è subentrato 18 volte in corsa rispetto alle 22 squadre allenate, e alla fine, è rimasto, perché se sei bravo, ne fai una specialità. E lui l’ha fatto. «Nel calcio le poesie le porta il vento» disse dopo aver perso il suo quarto derby, c’era il suo ritratto, il pragmatismo prima di ogni singolo gesto o formazione, la praticità di uno che sa che sul campo non servono moine ma mosse precise, magari sempre le stesse ma in momenti diversi. Come ha imparato dal suo mare, andando in barca a vela. Da lui non si può pretendere fantasia o stupore, certezze di punti sì. Reja sa come non mollare e sa come passare l’idea dallo spogliatoio al campo. Venendo da lontano, è semi slavo, è sempre stato un intruso, ha avuto la fortuna di vedere le cose diversamente da una posizione di minoranza e ha saputo sfruttarla. Con la Lazio, poi, aveva avuto una gran bella stagione, da uno che parte con una Gran Torino e si ritrova con una Ferrari, per questo aveva lasciato e «non perché mi è venuta l’arteriosclerosi», ora torna dove era stato felice e da dove forse non era mai andato via. Perché su quella panchina aveva dato il meglio (un quinto e un quarto posto in serie A), nonostante cessioni e infortuni, dove aveva riciclato tutto il vento, l’acqua e il freddo: presi, restituiti i gol subiti, perfezionato il suo uomo in meno (in ogni squadra di Reja ne mancava sempre uno come si deve capace di fare la differenza, e se c’era non aveva voglia: vedi Zarate), e dove aveva cominciato a divertirsi dopo troppi campionati di sofferenza. Così è tornato, l’ha rifatto, è subentrato, ancora una volta, per un anno forse due.
uscito su Il Mattino
[…] stropicciata dagli eventi, e rammendata a gennaio, fece il lavoro sporco di cui poi si servì Reja – anche se andò vicino alla Juventus di Marcello Lippi (che sarà con lui in Nazionale, era con […]