La Calabria è la suprema nostalgia del nostro tempo dove si consumano romanzi e film italiani. Nel senso che non vengono né scritti né girati. Ma si producono, sprecano, perdono. E non c’entrano Corrado Alvaro, Gianni Amelio o la ‘ndrangheta, ma proprio la sua natura: dal paesaggio a tutto quello che l’ha trasformato. Poi, certo, anche i calabresi hanno un ruolo fondante e non trascurabile ma vengono dopo la natura calabra. A parte il fatto che già nel nome c’è tutto il senso da opera lirica e questo da solo basterebbe a farne fabbrica, fossi un regista girerei un western a Rosarno e un documentario di case seguendo la Salerno – Reggio Calabria, altro che sacro GRA, la Sa-Re è l’unica strada italiana che ha un’epica americana, anzi no messicana, perché la Calabria è il nostro Messico, è frontiera prima del mare e della Sicilia che è sempre un’altra Italia, sempre un altro posto lontano da noi: e la Calabria estremità geografica e sociale, ultima e unica, regione e legione, a mettere in pratica le parole del vangelo in termini economici e di potere: l’ultima è la prima, chiedete in Lombardia. Ma questo non ci interessa, è roba di Maroni e Saviano, ci serve per dire che le Calabrie sono in assoluto cinema naturale oltre che racconto. Prendete Gioia Tauro, il porto, non il villaggio di cemento e pescatori con due barche che ne rimane, col ponticello senza balaustre che si allunga per i pensionati e i bambini, provate ad andarci in un giorno qualsiasi, e vedrete il grande deserto europeo, il primo sopra l’Africa, le cui dune sono container e per salire in cielo ci sono le gru, il resto è vuoto, ma non un vuoto normale da non luogo di quelli che piacciono a Marc Augé con Starbucks e Wi-fi, no, quanto un vuoto che è post battaglia, da Maratona a Waterloo, e ogni singolo metro quadro di cemento con fioritura d’erba racconta di quelli che c’hanno provato – forse con poca convinzione – e sono caduti. A guardare a orecchio si possono sentire i rombi dei camion che ora hanno un ritmo da flebo, le sirene delle navi che ora sono come alba e tramonto, si possono sentire i movimenti meccanici delle gru che adesso sono sculture senza spiegazione né Cattelan con fotografi, e volendo sforzarsi si possono immaginare le masse modello Mao che marciavano, nessun libretto rosso ma le buste paga, vero miraggio nel grande deserto di Gioia Tauro, Messico.
No, Italia, astenersi poca immaginazione, non pervenuti critici, giornalisti, scrittori. Sì, perché Gioia Tauro andrebbe segnato sulle cartine come deserto, grande deserto grigio, e raccontato come Gatsby ma ci vorrebbe un americano, capace di farne un musical, altrimenti viene fuori “Ballando con le navi” e no, non passiamo niente, se non noia, “grande bellezza” sprecata e in funzione del New York Times, e allora diventa cinema su cinema, no neorealismo, serve iperrealismo e non magico, per carità. Che poi il Fitzgerald da sprecare a Hollywood ci sarebbe ma non lo pubblica Mondadori, e forse nemmeno sanno che esiste, si chiama Giuseppe Occhiato, ma è troppo “scatascio magno”, Gadda di Mileto, raffinato come Bufalino ma senza Sciascia che lo salva, alla fine troppo calabrese, quindi estraneo. E la storia, in mano a un italiano perderebbe epicità, finendo in “Presa diretta” con scandali ed errori di progettazione, previsioni di spesa, mazzette etc, non serve, già visto, consumato, e sperperato soprattutto, serve tragedia greca con linguaggio Hollywood, serve Tebe in mano a Nora Ephron capace persino di far vivere Tom Hanks dopo la morte cinematografica e la duplicità industriale da film a nastro. Insomma avete capito, a Gioia Tauro c’è la nuova Cinecittà, basta farlo sapere a Los Angeles non a Sean Penn, non abbiam bisogno di sfilate, servono registi capaci di percepire il deserto, non dobbiamo bombardare i container deposti come pietre ma aprirli come regali di natale e stupire più di un cartoon Disney, una cosa tipo Fred Astaire più Bambi con musica di Lenny Kravitz. Ora per sapere che il cinema italiano sia scarso basta che uno legga Mariarosa Mancuso e non la Aspesi – che sta al cinema come la Binetti all’avanspettacolo – e passi che qualcuno le creda, ma che si abbandoni la Calabria così, i migliori anni delle Calabrie senza nemmeno provare a venderla ai registi di Hong Kong è imperdonabile per il Ministero della Cultura ma anche per quello degli Esteri. Per questo Andreotti è durato tanto, perché capiva di cinema, era un critico spietato, sapeva che la politica è cinema di secondo livello che si serve del primo.
Per questo almeno una volta bisognerebbe percorrere la Salerno-ReggioC. prima di candidarsi, va bene anche senza traffico per capire che una strada è sempre un racconto che fugge e se non sei in grado di leggerlo hai sbagliato mestiere. E se nessun regista italiano ha pensato a un “Sorpasso”, pure invernale, lungo la Sa-Re, allora è tutto evidente: siamo un paese senza cinema. Se Favino e Servillo non sono mai stati a Cosenza (la città scritta sui muri) o hanno visto Rosarno solo da Santoro si capisce perché possono andare bene a Vanity Fair, Baricco ma non alla realtà. Che non è un crocefisso al neon, un corso di cresima con karaoke e un po’ di provincia calabra come in “Corpo celeste” di Alice Rohrwacher. La realtà è la tenda di Isaac, nell’ex nucleo industriale di Rosarno: E3, l’indirizzo sulla tenda, mezza cipolla, una scatoletta di tonno Rio Mare, una bottiglia di plastica, una di detersivo senza marca, tre paia di calzini, due maglie stese, la coperta della protezione civile, un coltello col manico verde, una torcia rotta, due pentole, un fornello da campo, tre forchette, nessun bicchiere, un cucchiaio spezzato, lo shampoo Johnson, una penna, un quaderno, una bibbia, due cani fuori ad aspettare con la bici rossa divisa in quattro, la busta dell’EmmeDi, quattro figli ad Accra, due giorni di lavoro al mese, e un ago da sarto. Nessuna indulgenza, solo elenco, numerazione dei componenti. E cinema. E il cimitero di Rosarno è puro western, girato da Rodriguez con zombie e vacche e pecore tra le tombe, e l’armonica e Morricone passano per le mani di RZA, e la sopravvivenza: davvero impossibile, a meno che non tu non sia un bianco e vile, e ti sia fatto anni in Nigeria per poter essere feroce nei campi fuori casa tua, anni fuori Lagos a bruciarti le narici per le cortecce degli alberi macerate, un Clint Eastwood calabro, tradito dal partito e da tua moglie, senza pensione ma con la pistola, e no, nessuno venga a dire che tra i loculi non si vede il sudore, dovrebbero, però, scriverci: «Ci scusiamo se qualcuno dovesse sopravvivere in seguito a questa attività».
Qualcuno come Giuseppe Lavorato che è lo sceriffo-filosofo, quello al quale sparano ma lui non lascia perdere, uccidono il miglior amico ma lui non lascia perdere, vede la pianura cambiare, popolarsi della gente e del lavoro sbagliato ma lui non lascia perdere, vede la sua battaglia svanire, il suo esercito sciogliersi, le sue idee vane ma non lascia perdere è un Buster Keaton che sbaglia film, e di fianco ha un cavallo senza sella, che è quasi inutile montare per quanto è vecchio, e dopo che gli han sparato una raffica di kalashnikov sulla sua casa, che il treno non è arrivato, solo, non si domanda nemmeno come un Chatwin qualunque: “Che ci faccio qui?” E se non lo nomini senatore a vita è perché non conosci le Calabrie, è perché c’è una sceneggiatura sbagliata, quella di un paese che non ha considerazione del merito per questo finanzia i film sulla famiglia e si dimentica di quelli come Giuseppe Lavorato. Perché il cinema è memoria in movimento, e come i fiumi e le strade ci mette le puttane e i pazzi, tutto insieme, e persino a quelli della Lega stanno bene, almeno fino a quando non diventano cenere e sangue in un ristorante di Duisburg, Germania, dove le Calabrie esportano il modello cinema Scorsese, bravi ragazzi da farci una serie HBO, niente pistola negli spaghetti ma sangue, sangue vero che scorre lento come le auto a ferragosto sulla strada che abbiamo dimenticato, e che il “Corriere della Sera” racconta sempre allo stesso modo: sprechi, Nicholas Green e lavori in corso e mai una volta che provi a metterci una donna che esca a Lagonegro per fare rifornimento, avremmo una bella di Lodi mancante di Arbasino ma con in più la possibilità antonioniana e coreana di farla incomunicabile, e a Campotelese fra gli operai che son tutti emigranti di ritorno e parlano tedesco che nemmeno Magris: faremmo invidia a Ken Loach, e farli ballare sopra la scarpata rosicherebbe pure Moretti col pasticcere trozkista nell’Italia conformista, avremmo l’operaio dell’Udc nell’Italia abbattuta che seguita a costruire una strada verso una frontiera che non c’è più. E pensate a Lynch che potrebbe fare una saga tutta silana di ragazze perdute e alberi per impaurire chi le cerca. Ma il vero grande film da girare come un Gattopardo, è quello sulle case, un film onirico con innesti di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e non ci pensate nemmeno a Pasolini, per carità, case e case e case senza nessuna ragione, costruendo case, forse Werner Herzog capirebbe se gli dicessimo che la Calabria, anzi le Calabrie sono il nostro Messico, anzi i nostri Messico e se è mancato Zapata non sono mancati i morti e le armi e nemmeno i traffici, e i Los
Zetas hanno ancora molto da imparare dalla ‘ndrangheta, ma Herzog deve vederla come l’Antartide e non deve dimenticare il film di Visconti e non per quella cosa scema dei dettagli e delle luci ma per la visione che non era mai striminzita. Visconti era lo zio che giocava ai cavalli, che era ricchione ma lo percepivi come sciupafemmine, insomma tutto e il suo contrario, perché che altro sono le case costruite sulle spiagge se non puro Visconti? Sono scene che non ti aspetti, macchine di stupore. Case come se fossero cori, e un solo attore: Jerry Lewis, agente di commercio che percorre la Salerno – Reggio Calabria, come se fosse il Nevada ma invece è l’Odissea e gli autogrill – poche isole – stazioni, sì, un film reazionario e corale che ci vorrebbe Altman, e solo per le auto e i camion l’aiuto regista è Steven Spielberg: nessuna ossessione “Duel”, sono esperienza, di chi conosce la strade e sa come vederle, le macchine, irruzioni John Cassavetes. E la consapevolezza che l’unico italiano che poteva girarlo era Sergio Leone, case e strada, cimitero western di Rosarno e grande deserto di Gioia Tauro, LUI avrebbe tenuto tutto insieme, a patto che la sceneggiatura fosse stata di Tiziano Sclavi, anche a costo di mettere la nebbia a Lagonegro, gli zombie li avevamo già, i cani anche, e se avesse voluto chessò uno tirannosauro ok, ok, gli avremmo dato anche quello, tanto la Calabria, anzi le Calabrie tengono tutto, sono un supermercato di storie, un parco giochi con supremazia da pre-frontiera, e guardandolo sto film anche Cormac McCarthy avrebbe preso casa a Morano Calabro, e ditemi perché l’aeroporto di Lamezia con i suoi oblò “Odissea nello spazio” dovrebbe sfigurare? Eh? Su, ditelo. È perché non sappiamo guardarci, e il problema non è tanto la ‘ndrangheta quanto che non c’è Sergio Leone. E se Dan Brown non la vede la Calabria, anzi le Calabrie, non possiamo mandarci Ron Howard, nemmeno se ci corriamo un gran premio da Reggio a Cosenza, no. Il punto è questo, lo sperpero di racconto e cinema che va perduto senza nemmeno un Vittorio De Seta che storicizza i geometri dei comuni, sono loro che han fatto la Calabria, anzi le Calabrie, sono loro i registi di questo grande Horror House Show, e allora ci vorrebbe Tognazzi, e anche qua siam scoperti, ancora una volta siamo in fuorigioco, abbiamo il ruolo ma non l’attore
e Johnny Depp va bene come magliaro calabro a Marsiglia, Benicio del Toro può fare il killer ma entrambi non vanno bene come impiegati dell’ufficio tecnico di Scalea, e anche lì, a Scalea, Almodovar impazzirebbe non solo per i parrucchieri e le famiglie napoletane, per gli intrecci sessuali consumati nelle zone giorno arredati da Concetta Mobili che era Ikea fuori Caserta, quando a Stoccolma avevano il problema di Olof Palme e Veltroni guardava Bergman. Scalea è stata la nostra Las Vegas, fatta di tre camere con ripostiglio e mare a cento metri, non c’erano le insegne e nemmeno i casinò, ma c’era il sogno, e il traguardo era il Santa Caterina, no cattedrale ma hotel non santa ma mamma, ed era prima prima di Marchionne, e prima ancora di Ryanair quando non potevi andare sul Mar Rosso, quando gli aerei non erano i bus di oggi e ci trovavi anche la nonna di Mario, quando Scalea era l’unico orizzonte possibile dall’operaio all’impiegato di concetto. Ecco e la Salerno-Reggio c’era già, ed era questo film qua, colonna sonora no Vianello, no Modugno ma Merola, come Dolce & Gabbana ora, no, non un evasore, piuttosto un vanto, diceva “tu chi sei” prima della radio di Ligabue, e certe notti al massimo c’era l’anguria. È un film reazionario e nostalgico il nostro, la Calabria, anzi le Calabrie, non hanno nulla di sinistra, siamo in una storia di Lansdale o Leonard mica di Mazzantini. E penso anche a Kate Bigelow che sa fare gli inseguimenti tolti Lenzi, Sollima e Di Leo, come potrebbe utilizzare i cavalcavia della Sa-Re, e a come un film fatto di due auto che si rincorrono da Sala Consilina a Villa San Giovanni potrebbe far impazzire Tarantino non certo Curzio Maltese che non capirebbe il non aver rispettato i limiti, i tamponamenti, e gli incendi e le rapine agli autogrill. Perché la Calabria, anzi le Calabrie, in quanto Messico di casa nostra, non sono per tutti, ci vorrebbe tempo, e non nel senso di Faletti che neppure se passano secoli diventa Stendhal, mai e poi mai, nel senso di Franca Valeri. E volendo c’è anche lo spazio per un saggio decostruzionista da girarsi sotto forma di documentario affidandolo a Michael Moore, partendo dalla domanda: Come mai i calabresi che fabbricano in mezzo mondo dalla Germania al Canada accollandosi le regole poi in casa propria se ne fottono della natura? Rimane un mistero che non ci riguarda, è il compito per il candidato Moore o per un nuovo Spike Lee, sempre che sia capace e buono ad acchiapparla. Perché per vedere la Calabria, anzi le Calabrie, bisogna poggiare le mani sul parapetto, senza guardare giù, e scavalcare, senza saltare ma tenersi forte alla balaustra con le braccia tese, e guardare dalla parte più estrema e pericolosa dello strapiombo, allora e solo allora sarà possibile immaginare un poco di quello che abbiamo visto in questa pagina. Perché dopo, arrivati a Reggio Calabria, si finisce in un romanzo di Scott Turow, e in certe strade persino di Guillermo Arriaga e ci sta, ma dopo, dopo, c’è il lungomare più bello d’Italia, e anche il meno visto, e dopo, dopo ancora, a quattro bracciate che pure Beppe Grillo è stato bravo a dare, dicendo che il ponte non serviva, oltre che lui era giovane, dopo dopo, c’è la Sicilia, che è l’altro mondo, non il nuovo ma l’antico mondo, la nostra America scassata.
Foto di MariaVittoria Trovato
Gioacchino Criaco, ritratto impeccabile delle Calabria.