Il campo è una trincea tra due piazze di spaccio, sotto la grande cisterna d’acqua. La Scuola Calcio è quella dell’ U.S. San Nicola. Esiste dal 1982, idea di tre amici: Aniello Rega, Gabriele Guercia e Lorenzo D’Amato. Prima hanno immaginato e poi si sono battuti per trasformare la «terra arsa» in un vero stadio, di erba sintetica, con funzione da centro sociale. Da sogno a certezza. Dalla periferia alla serie A. Castello di Cisterna, 7300 abitanti, il paese è un morso tra Pomigliano d’Arco e Brusciano. Qua si marca a uomo, tutto, dallo stadio ai paesi, dalla speranza al lavoro, ecco perché escono, poi, grandi attaccanti. È su questo campo che hanno giocato Nicola Caccia, Antonio Di Natale, Francesco Lodi e Vincenzo Montella «il migliore, fin da ragazzino, che ho strappato dai pali, faceva il portiere e giocava benissimo con i piedi, in tempi non sospetti, quando fintò e dribblò un attaccante capii che dovevo spostarlo in avanti, e così nacque l’attaccante». Dietro tutti questi calciatori, c’è l’ex difensore centrale Lorenzo D’Amato, che si è fatto prima allenatore, poi dirigente, ora responsabile, eterno osservatore di calcio. Da trentaquattro anni prende i ragazzini che scoprono il pallone, da piccolissimi, li toglie dalla strada e li mette in campo. Educazione, sorriso, poi gol. È con lui che vediamo la partita. Certo il salto è enorme, dopo un pomeriggio a guardare i mini-allievi del 1998, stravincere, cinque a uno contro la Jaguar Napoli. Primi in classifica davanti alla Stella Vesuviana e alla Mariano Keller. E in tribuna il gruppo di ultras è formato da genitori, catechizzati da D’Amato ad ogni inizio stagione, che in questo è zemaniano «prima l’uomo poi il calciatore, e sugli spalti non deve volare una mosca, nessuno deve insultare l’arbitro». Da giovane, Lorenzo D’Amato (60 anni), era George Best a Castello di Cisterna, anche se giocava al centro della difesa, ma erano il look e le movenze a ricordare il calciatore del Manchester United, ora, invece, è un saggio, niente baffi o capelli lunghi, ma ordine e ancora scommesse su quelli che arrivano, che sono tanti, e lui ha una parola per tutti: dal ragazzino polacco Samuel Sawa, triste perché relegato a fare il guardalinee, fino al bomber Luca Polise (16 anni) che ha fatto una doppietta e dopo la doccia ripassa a prendersi la mano in testa, che è meglio dell’intervista a Sky. E mentre lo saluta, mi fa notare le discese del terzino sinistro Ferdinando Sieno, un altro che presto avrà la sua occasione. Il resto è attesa per la finale. Tutti fanno pronostici ma aspettano la parabola dal vecchio George Best, divenuto un distinto signore devoto a San Nicola di Bari, capace di raccontarti il calcio del futuro in un giro di parole. Partite, città, ragazzini e chilometri macinati, geografia calcistica declinata a ricordi, tra un pronostico e l’altro, tra le foto di Orrico, Spalletti e Allegri, esce una sua relazione su un giovane Luca Toni che si distingueva nella partita tra Battipagliese e Lodigiani. Tanti campi fa. D’Amato non è solo un osservatore di calcio (a lungo per l’Empoli con «Silvano Bini un maestro» rapporti con Sampdoria, Inter, veterano al torneo di Viareggio) è un padre che adotta di continuo ragazzi, senza promettere nulla, in questo è un anti-Moggi. «Più dei procuratori sono i genitori quelli dai quali difendersi, è un continuo attacco molto più forte di quello del Real Madrid». Dopo la finale andrà a Perugia, per un provino di un ragazzino di 14 anni: Antonio Energe, proprio come accadde con Vincenzo Montella nel 1987, a tredici anni, portato all’Empoli, assistito fino alla Sampdoria. Lui tifa Milan per via di Gianni Rivera. Spera che Montella vinca la coppa per avere un titolo in bacheca da lasciare a Firenze per poi allenare la squadra di Berlusconi. Insieme andiamo a scommettere sul risultato, e ci imbattiamo in un esperto di calcio uruguaiano che teorizza la certezza del Cerro Largo Fútbol Club rispetto al Manchester United («addò miette tende» un modo per dire che non ti puoi fidare piantando la tua tenda), qua è tutto così il mondo capovolto, mentre a Roma si sparano qua si spera, con bollette in bottiglia. Due isolati dopo la sala scommesse, c’è via Nove Maggio, la strada di Montella, assediata dalle bandiere del Napoli. Ogni quartiere ha un calciatore passato dalla scuola: panettieri, baristi, vigili urbani, giovani e uomini, hanno giocato, quasi che fosse d’obbligo tentare il salto, avendo il trampolino a due passi. Tra Gesù da orto e case non finite, campagne frammentate e chiese strette in un angolo, muri verniciati a metà e diffidati di periferia, si aspetta la finale col fiato sospeso.
A casa D’Amato si tifa Fiorentina, anche la signora Raffaella spera nella vittoria di Montella, come il figlio Luigi, tutti, tranne uno dei dirigenti della squadra, Carmine Sieno che tifa Napoli, ed alla fine farà notare prima della tv che il Napoli raggiunge il Milan nel numero di Coppe italiane vinte. Mentre Insigne la mette in porta, fuori esplode una Piedigrotta, dentro, invece, si va di amarcord. A parte Insigne non ci sono ragazzi italiani in campo, non c’è una rete da parte di De Laurentiis, né delle altre società. Il presidente del Napoli parla di squadre messicane da acquistare, mentre il Messico è qui, e proprio la storia di Montella lo dimostra, tra mille difficoltà, si può crescere, diventare grandi calciatori e poi anche allenatori, bordeggiando il successo. «Da Vincenzo mi aspetto ancora molto, come che torni qua, e parli ai miei 10 allenatori, che racconti la sua storia, non quello che ho fatto io, quello non conta». D’Amato è un uomo umile, dipendente del ministero della difesa in pensione. È Dio, padre e famiglia e ovviamente pallone, pallone, pallone. Capace di andare ad urlare contro chi rubava le magliette dallo spogliatoio, come di spiegare a quelli che scavalcavano il muro dello stadio per andare a vandalizzarlo che forse potevano giocarci anche loro. A tratti sembra Joe, quello di Ken Loach, Cisterna come Glasgow, intorno al campo. Anche se è stanco, potesse tornare indietro, no, non rifarebbe questo lavoro, pure se da poco ha tirato fuori Gianmario Piscitella, l’ultimo dei calciatori spedito verso la serie A. Intanto, Insigne ha ri-segnato, ma non ha interrotto il suo lamento, dice che non lo rifarebbe ma è ancora lì sul campo, tutti i giorni, dice che non lo rifarebbe ma è di nuovo pronto a partire, e quando sente il rumore dei gol che fanno i suoi ragazzi torna indietro, chiede chi ha segnato e su passaggio di chi. È uno da dettagli, D’Amato, non si perde niente, «formo ragazzi non devo vincere per forza, quella è una condizione che viene dopo». Però quando segna Vargas, cambia tono ma non perde la calma, aspettando Giuseppe Rossi e Alessandro Matri come mosse di Montella che poi arrivano. Quando segna Mertens mi fa notare il gesto del belga, come fa ruotare la caviglia, come si è fatto trovare in area, come sia stato puntuale a differenza di Matri che aveva avuto il biglietto del pareggio ma gli era caduto dalle tasche. D’Amato è uno che va di continuo oltre la vittoria e la sconfitta, pensa alla formazione dei calciatori, ragiona al futuro, è sempre proiettato oltre, lanciato verso la prossima città e il prossimo ragazzo che diverrà pure campione. È un gioco di carambola e rimando, aspettando il gol giusto, quello che accorcia le distanze tra campo e sogno. In fondo, anche l’altro Best, quello vero, George, era una promessa continua, un dribbling dopo l’altro, fino a diventare un aeroporto.
[uscito su Il Mattino]
[…] da calciatore giocava in porta nell’Us San Nicola a Castello di Cisterna e il suo allenatore Lorenzo D’Amato lo spostò in avanti: «era il migliore, faceva il portiere e giocava benissimo con i piedi, in […]
[…] e lui era uno di questi, aveva cominciato in porta a Castello di Cisterna poi il suo allenatore Lorenzo D’Amato gli cambiò maglietta e area di rigore, e lui prese a volare. I portieri, anche oggi che la palla […]