Non è vero ma succede. La storia della “maledizione” di Béla Guttmann sembra roba da romanzo sudamericano, saga da Harry Potter calcistico, favola da Coppa d’Africa, invece no, torna ad ogni finale del Benfica, è una storia vera e tutta europea. Niente stregoni, solo rancore per un mancato aumento. Costato carissimo. Siamo all’ottava finale persa, con quella dell’altra sera a Torino contro il Siviglia. Otto finali consecutive senza nessuna vittoria. Tutto previsto, anzi no, tutto augurato. Dall’ultimo capace di vincerne una, Béla Guttmann. Una maledizione. L’ultima Coppa alzata, quella dei Campioni del 1962, partita vinta 5 a 3 contro il Real Madrid. Era la seconda consecutiva, l’anno prima il Benfica aveva battuto per 3 a 2 il Barcellona. Sempre guidata da Béla Guttmann, ungherese, anche nazionale (che allenerà nel 1952), era un tuttofare tra difesa e centrocampo che segnava pochissimo, giocava con la testa alta, uno da un passaggio e via, poca confidenza al pallone, spartano, deciso, giocò con MTK Budapest, Hakoah di Vienna, e poi negli Stati Uniti. Ebreo figlio di ballerini, a sua volta istruttore di ballo che scelse la panchina. Un po’ Herrera molto Mourinho anche se aveva una faccia da Krushov, vestiva da funzionario di partito, con una mentalità calcistica avanzata, fu tra i primi ad adottare il 4-2-4, che dal suo San Paolo arrivò alla nazionale brasiliana (1958). Molta ironia, qualcosa che ricordava Boskov, «Il Benfica non ha il culo per sedersi su due sedie». Morto nell’81 a Vienna, torna ogni volta per questa storia di magia. C’è una foto che lo ritrae con borsalino e occhiali scuri che ricorda “La patente”, commedia di Pirandello, a cinema con un Totò magnifico diretto da Zampa.
Ecco, siamo in zona: «Rosario Chiarchiaro s’è combinata una faccia da jettatore che è una meraviglia a vedere. S’è insellato sul naso un pajo di grossi occhiali cerchiati d’osso che gli danno l’aspetto di un barbagianni; ha poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfia da tutte le parti, e tiene una canna d’India in mano col manico di corno». Dopo la vittoria della Coppa del Campioni (1961-1962) Guttmann chiese ai dirigenti del Benfica un premio, richiesta che fu rifiutata. E Guttmann decise di andarsene, ma prima scrisse un addio da film: «Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d’Europa e il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni». Sembra una di quelle frasi battezzate dal rancore per un progetto finito. Ma se è vero che il Porto ha vinto due volte la Coppa dei campioni, nel 1987 e nel 2004, smentendone la prima parte. La seconda per ora si è avverata, e i tifosi del Benfica temono che possa andare avanti fino al 2062. In realtà Béla Guttmann era molte cose, prima di tutto un fine tattico, poi un bravo psicologo (con laurea) per i tifosi parlava di «masse associative», anche se era di quegli uomini che addolcivano la realtà, gli piaceva aggiungere cose da romanzo, completava quello che la vita aveva lasciato in sospeso. Quando allenava il Servette, in Svizzera, durante una conferenza si inventò di aver vinto il campionato italiano, in realtà era stato esonerato dal Milan (primo in classifica):«Sono stato licenziato anche se non sono né un criminale né un omosessuale. Addio». Oggi la sua tomba è meta di pellegrinaggi per farsi perdonare il rifiuto dei dirigenti di allora, ci provò anche Eusebio: «ogni volta che il Benfica gioca in zone vicine a dove si trova la tomba di Guttmann i tifosi vanno in visita, portano dei fiori, sperando di liberare la squadra dalla maledizione» ha raccontato Jose Carlos Soares, giornalista portoghese. E al 2062 mancano ancora tanti anni. Una infinità come quelli di Roger Milla, attaccante del Camerun che ha chiuso la sua carriera a una età indefinita e senza mai un incidente di rilievo. Si diceva fosse lo stregone di se stesso “le grand Sorcier”, vicino ai pigmei di Lolodorf che gli avrebbero insegnato i segreti per proteggersi. E proprio la magia dei
pigmei è legata ai Mondiali del ’98, vinta dalla Francia, con un Ronaldo messo fuori uso dalla magia. Tanto perfetta da essere richiesta anche dal presidente Chirac che pescava in Senegal tra i maghi prima di pescare nell’elettorato a Parigi. Dove Philippe Trousier, ex Ct del Giappone dopo anni ad allenare tra Costa D’Avorio e Burkina Faso, giudica gli stregoni più importanti dei coach. Sono molte le storie, come quella di Eugène Ebodé, scrittore per via della magia, prima era stato un calciatore a diciotto anni con i Dragons di Doula, poi Dinamo di Doula. E dopo una sconfitta lo stregone della squadra chiese la sua esclusione perché vittima di un altro sorcier, quindi causa delle sconfitte. Carriera chiusa, volo in Francia, università e vita nei libri senza pallone. Dove ha raccontato di quando giocava in porta e doveva stare attento ai fossi scavati sulla linea dagli stregoni per sotterrare ossa, ju-ju e oggetti a protezione o maledizione. L’area di rigore, si risolve tutto lì, sarà per questo che anche il portiere Thomas N’Kono, si è fatto stregone, arrestato prima della partita Mali-Camerun (2002) sorpreso a compiere un rito e poi squalificato. Però c’è chi crede a Voltaire, Aliou Cissé, ex centrocampista Senegal «se fosse vero i paesi africani vincerebbero sempre». Bisogna spiegarlo ai calciatori e ai tifosi del Benfica che forse hanno dimenticato Voltaire e che«la caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili», quindi in ogni finale di coppa ma non per questo devono farsi verbo.