Nel dormiveglia del volo, un po’ rincoglionito dalla melatonina, penso a queste sette settimane intense, alla gente che ho conosciuto, e a quello che ho fatto. Temo di avere appena scalfito la buccia della Colombia. In realtà, a pensarci bene, ho visitato due posti in tutto: La Candelaria e il Caguán. Che schifo di viaggiatore. Non ho ammirato l’architettura coloniale di Cartagena. Non sono andato in piroga sull’Orinoco. Non ho raggiunto la Ciudad Perdida, meraviglioso complesso di rovine precolombiane sulla Sierra Nevada de Santa Marta. Non ho avvistato le balene che da luglio a dicembre figliano nelle acque calde di Buenaventura. Non sono stato a Pasto, dal taita (sciamano) della Valle del Simbundoy, a provare il yagué, la droga degli indiani putumayos dal sapore orribile che ti fa veder chiaro nel passato e nel futuro, ma soprattutto nel presente. Non ho sperimentato l’Espiritu della Manigua, la strana fascinazione con cui la selva del Caquetá intrappola chi arriva e non lo lascia più andare. Non ho scopato le donne di Florencia, che si dice siano le più belle ed erotiche tra le già pur belle ed erotiche colombiane.
Sette buone ragioni per tornare a passare altre sette settimane in questo paese generoso e crudele. E poi l’ha detto anche la cacaomante: tornerai.
E no, Enzo Baldoni non è più tornato in Colombia, ma ci ha lasciato un gran bel libro, che quelli come Christian Rocca e Guia Soncini non saranno mai capaci di scrivere, perché non hanno mai consumato le proprie scarpe, non sono mai stati in pericolo, non si sono mai sporcati di fango e non hanno mai avuto una camicia macchiata.