Mi chiamo Dragoslav, e il mio è un nome da assassino. Ho perso il conto di tutti quelli che ho ammazzato. Ogni volta che provo a contarli me ne manca sempre qualcuno. La mia era diventata un’abitudine. Agivo in automatico e infatti avevo perso la voglia. Pure quando sono andato via dall’Italia e mi sono piazzato a Mosca, ho scoperto che erano bugie. Non bastavano due omicidi per andare a comprarsi una squadra inglese, ci voleva un’impresa che significava mai più. E io sono un testardo, alla fine ci sono riuscito. Ho accettato di fare una cosa che nessuno si sentiva di fare, nel centro di Mosca. Una cosa che avrebbe cambiato la storia di quel paese, almeno così pensavo. C’è voluto un bel po’ per preparare l’operazione, anche per definire il prezzo, ma alla fine ci siamo accordati. Non posso chiamare quello, il mio ultimo omicidio, un capolavoro e quindi una degna fine, perché non tutto è andato come doveva, e anche perché uccidere uno che ha ucciso ti viene facile, invece uccidere una donna che cercava in tutti i modi di evitare che la morte diventasse la prima attività del paese è un altro. E quando spari si sente. Avrei dovuto usare della droga o bere. Né l’una né l’altro, non mi appartengono. E sono andato a sbattere. Le ho sparato e non dimentico i suoi occhi. Nella conta che faccio lei è sempre la prima, anche se parto dall’inizio e allora dovrei contare l’albanese. Forse incarna la colpa per tutti gli altri, forse perché lei era innocente e gli altri no, forse perché verso quella donna ho esitato, ho anche sbagliato e non era mai successo. Per la prima volta trovavo assurdo togliere la vita a un altro. Era una giornalista, era una mamma, era anche una donna bella. Si chiamava Anna Politkovskaja, lavorava alla Novaja Gazeta. L’ho aspettata nell’ascensore del suo palazzo e l’ho colpita alla testa. Avevo una Makarov PM che ho lasciato di proposito nella speranza che qualcuno risalisse a me, che qualcuno mi trovasse e me la facesse pagare. E invece niente, nessuno mi ha trovato. Sono andato in Inghilterra e con le giuste conoscenze ho avuto la squadra che volevo, con un nome che non era il mio e che non diceva che c’era un assassino libero e sorridente seduto sulle tribune degli stadi inglesi. Anche là tutti mi dicevano della somiglianza con Vucinic, spero che a lui vada meglio. Quando avevo deciso di confessare, di smetterla di cambiare nome e paese, davanti a una nuova richiesta di lavoro, tergiversando, mi hanno cancellato in un modo che non meritavo. Anche gli assassini hanno diritto a scegliere la fine: il torero vuole essere ucciso dal toro, il cacciatore dalla preda. La mia pena è stata morire per mano di un vigliacco, avvelenato con del sushi al polonio 210. Una fine silenziosa e stupida.
[Il vangelo a benzina, Milano, Bompiani 2012, pp. 105-106]