L’indolente Gonzalo Higuain, tra epopea ed elegia pallonara, dribblando la sua insolvenza, ha convinto tutti, anche gli scettici, quelli che lo davano smarrito a Rio de Janeiro, perso in finale, dimenticando il gol da Parola segnato poche partite fa alla Roma. Questa volta, in una sterminata partita, che più di una finale, era un regolamento di conti western, con flashback da Pechino, ha riscosso la taglia e vinto il duello con Carlos Tevez; altro argentino, faccia sporca e animo pure, da Sergio Leone, rispetto a quella greca di Higuain – come da calendario ufficiale – Oliver Stone. E lo ha vinto, non tanto per aver risposto colpo su colpo, gol su gol, ma per aver segnato il rigore a dispetto dello juventino che lo ha calciato sul palo, è il dettaglio – non di poco conto – che lo mette al di sopra, che gli consegna non solo la Supercoppa, ma la possibilità di prendersi il campionato, quale migliore straniero, di farsi pistolero e padrone. Tutta la sua rabbia, in un crescendo da musical, tra primo e secondo gol, è stata fotografata nel gesto liberatorio, che no, non era un omaggio alla palla, come quello di don Alfredo Di Stefano che le volle dedicare un monumento fuori casa a parziale ringraziamento per essersi lasciata addomesticare, quanto una “napoletanata” vi ho “fatto il mazzo” annodabile alla “romanata” tottiana “vi ho purgato ancora”. Con la vittoria di Doha, escono allo scoperto le capacità di Benitez: a lungo e ingiustamente criticato – su tutte valga la scelta vincente de Guzmán che fa, seppure per un momento, Xavi bevendosi la fascia juventina –, la maturazione di Rafael che si libera dell’ombrello Reina e può finalmente rispondere ai tweet dell’ex portiere, ma soprattutto la definitiva leadership di Higuain, senza drammi. Nelle ultime partite di campionato, l’attaccante argentino, in modo poco aristocratico aveva fatto pesare la distanza tecnica che lo separa dal resto della squadra, reclamando di continuo il pallone e chiedendo cose che solo da poco Insigne aveva imparato a fare. In Qatar ha dimostrato di sapersi arrangiare, tutti i palloni che ha avuto li ha spediti in porta, tre in rete. Da dissolvente si è fatto risolutore. Bastava vedere il suo sguardo prima ancora dei suoi gesti. Adesso a Napoli ne faranno un supereroe, verrà declinato da santo a risposta per ogni tipo di problema, la verità è che Higuain è un affilatissimo rasoio che va usato nel verso giusto. Non vedere gli sforzi per avere un pallone, aspettare l’ultima carità di un cross, credergli Zapata migliore, per fortuna non fino al punto di fischiarlo come è accaduto ad Hamsik e prima ad Insigne, non aiutano. Il duello di Doha ha ristabilito priorità, rimesso in ordine gradi e voglie, ed ha spiegato alla città che un altro Napoli è possibile, basta saper aspettare. Chi aveva colto solo il guazzabuglio erratico, e vedeva Higuain come la mano che disegnava l’errore, ha visto, invece, un attaccante che prima di testa e poi di piede ha battuto un Buffon che bordeggiava il se stesso del 2006. E disegna la misura dell’impresa, e subito
dopo la forza di Higuain. I suoi tre gol, non sono un saggio fondamentale del pallone, ma la tesi che la volontà può più della Juventus e di Tevez. Higuain ha mostrato di crederci quando tutti gli altri avevano smesso, ha preso a giocare e bene, quando gli altri avevano smesso: Tevez per stanchezza e appagamento post-doppietta, Pirlo per forzato errore d’Allegri. Sul finire dei tempi, Higuain ha ri-scritto quasi a memoria, con gesti d’attacco, la partita. E fosse entrato il suo pallonetto d’esterno avrebbe mummificato il resto. Ma questa finale ci ha comunque consegnato la sua complessità di calciatore, mostrando quanto poco ancora si era visto di lui, e lasciando immaginare quanto ancora c’è da vedere, si spera senza messa in discussione da congresso di partito. E per ogni gol di Tevez, lui ribadiva, in modo eclatante, che c’era un arcano potere su quella partita, e quel potere veniva da lui. Dopo il secondo gol incassato dal Napoli, ci credeva solo Higuain e poi quasi per contatto c’ha creduto Gargano, quello che ha buttato in area la palla sporca che il centravanti del Napoli ha spedito in porta. Come per incantamento, Higuain ha capito che Napoli era sua, e Napoli le si è consegnata. Quel gol del pareggio, è la partita. Il suo rigore perfetto è sparito davanti agli errori e poi alla parata di Rafael, ma nel racconto della partita, e in questo regolamento di conti di fine anno, c’è la figura di Higuain che svetta, prima ancora di vedere il calciatore che con un solo braccio alzato festeggia l’errore di Padoin. Napoli e il Napoli calcio sfiancano, scatenano guerre religiose e favoriscono la svogliatezza dei caratteri, oltre che minare la concretezza dei progetti. A Higuain, oltretutto, i mesi iniziali andarono male, cominciò col prendere uno scoglio, prima ancora del pallone. Non è un calciatore frenetico come certi argentini, è più balcanico nel suo assentarsi, prendere strade diverse, per poi ritornare improvviso e decisivo. Il suo è un calcio da demone, fatto di pressanti voglie di gol e di scomparse riposanti, di richieste assurde e compulsive e dipartite sorridenti. Ha un sentimento romantico per le aree di rigore, in alcune si perde, in altre tradisce, spesso il meglio di sé lo ottiene standone fuori, partendo da lontano. La sua è una continua ricerca della sincronicità con la bellezza che ha imparato in Argentina, dove ogni capolavoro non è che la risistemazione di una superiorità calcistica che si respira nell’aria e dalla quale è difficile liberarsi. La carriera dei centravanti argentini, di cui Higuain fa parte, è condizionata dall’incessante ricerca accentratrice-pallonara in Europa, quasi a metaforizzare la riconquista del posto che li ha espulsi. Un continuo violare i limiti attraverso i gol. A Doha, ha governato il caos, è uscito dall’ombra, si è fatto Domingo Sarmiento, ed ha vinto.
[uscito su IL MATTINO]