Estate per principianti

120249828_10Una spiaggia è sempre un romanzo da scrivere, pagine di sabbia segnate dai corpi mezzi nudi che le passano pelle e desideri, sudore e stanchezza, acqua, secchielli e zoccoli, teli, borse, borsette, borsoni, borse frigo, libri e giornali e piedi tanti. Spiaggia libera, “Le Saline”, Palinuro, scoglio-isola a destra, faro sulla sinistra, colline verdi alle spalle, gazebo di legno modello palafitta con balcone che scandisce spazio, striscia d’erba a zerbino che anticipa la sabbia. Mare calmo e almeno 5 prototipi di umanità spiaggiata. L’Ingegnere: si spoglia con calma, allinea le sue cose, piega i vestiti e li ripone nello zaino, ha tutto l’occorrente per resistere un mese su un’isola deserta, e dalla sua maniacalità nel sistemarsi – ha passato mezz’ora a calcolare il posto migliore rispetto alla luce solare – puoi dedurre che hai due scelte: stargli più lontano possibile oppure goderti le sue manie. Di solito ha un nome breve che presuppone una concentrazione maggiore, nessuna perdita di tempo, immediata ricerca del wi-fi, non ha tatuaggi, indossa una polo scura, riesce a non sudare, scarpe senza lacci che ripone in una apposita sacca. L’Ingegnere da spiaggia passerebbe inosservato se non avesse questa marea di azioni da compiere prima di buttarsi in acqua o sdraiarsi al sole. In acqua entra dopo aver sciolto tutti i muscoli con un riscaldamento da Champions League, e se c’è “il curioso” è pronto a dargli spiegazioni di ore. Se invece decide di prendere il sole allora comincia una laboriosissima operazione di spalmazione, con sé ha a disposizione circa 45 creme protettive, abbronzanti, idratanti, lenitive, unguenti e oli, spruzzanti e destrutturate, il meglio del mercato in una comoda borsa divisa in strati. L’Ingegnere da spiaggia vive bene la sua giornata solo se c’è il Curioso da spiaggia: capacità investigativa di un detective americano sezione omicidi, acquisizione superficiale di tutte le notizie del giorno, conoscenza profonda del meteo, del calcio, dei gossip e di una materia a piacere tra porno e giardinaggio. Per quello che non sa c’è google dal telefono. Il Curioso tende a mimetizzarsi, ha una età indefinita e non saprete mai realmente se ha anche un lavoro, vi scroccherà nell’ordine: l’ora esatta, il giornale, un po’ d’acqua, dei biscotti, notizie sulle malattie contratte dai vostri figli, eventuale consulenza se siete un professionista di qualunque cosa, e forse vi concederà il beneficio di conoscere il suo nome, che lascia come titolo di coda sui saluti ma che elargisce di prima mano alla Giulietta della spiaggia. Possiede un telo da mare appartenuto a suo padre e usato solo una volta per la visita a Lourdes come tovaglia da picnic, un costume che arriva alle ginocchia e che rilascia il colore a contatto con l’acqua – regalatogli come segno di rispetto dal cinese al quale ha subaffittato il suo garage – un paio di zoccoli così consumati da sembrare una trovata di Dolce&Gabbana, e una maglia catarifrangente che un ciclista ha dimenticato su una panchina. Il suo scopo non è nuotare o prendere il sole ma fare domande, non importa se alla nonna inchiodata alla sedia reclinabile e ormai cotta dal sole o al bimbo che vuole costruire il suo castello – al quale dopo aver estorto tutte le notizie possibili sull’intera famiglia, spiegherà il piano regolatore per i castelli di sabbia della suddetta spiaggia –. Il curioso si ferma solo davanti a quello che è il Bastardo da spiaggia o Grande Truzzo del tatoo. Che si riconosce facile: ha sempre un mucchio di capelli in esubero che attorciglia riproducendo in testa un’anfora greca con disegni e iscrizioni, una abbronzatura da terra del Roland Garros, è arrivato scalzo guidando la sua vespa o scooter, ha un costume a grossi fiori modello parati salotto anni 70, ricavato proprio con i parati riciclati, e per telo la bandiera dalla Giamaica, ha dei bonghetti da zaino e se non li ha, suona il suo petto per tutto il tempo, cantando in un inglese che sembra barese e che in realtà lo è. Prima di fiondarsi in acqua – se non lo ha già fatto mollando le sue cose lungo il tragitto vespa-mare e insabbiando all’andata e schizzando al ritorno tutti quelli che gli capitano a tiro – avrà sezionato tutte le donne presenti nel giro di tre chilometri e di cui ricorda anche i colori dei costumi e le variazioni della cellulite. È il mago di Facebook, vive per il numero di amicizie. C’è una sola figura capace di redimerlo, rifiutandolo: la Giulietta. Non è una macchina ma una categoria di donna, minuta, con tre tatuaggi massimo, di cui uno dietro al collo, il sottile costume di colore blu vi farà comprendere la parola istmo che avevate ignorato a scuola, varietà di smalto per ogni dito di piede e mani che vi creerà non pochi dubbi su quanti combinazioni di colori siano possibili, e il suo piercing ombelicale: una freccia rivolta verso il basso, una direzione obbligata, dalla quale sarete dispensati con una smorfia da vigile urbano. La Giulietta di solito è bionda, ha un nome lungo, cambia umore voltandosi da una parte all’altra ed è in spiaggia solo per biscottarsi, esiste in due varianti: con amica replicante o con fidanzato gabbia che passa il suo tempo a sorvegliarla e a intercettare i possibili sguardi bassi che invece la Giulietta conta almeno fino a quando non si stanca, di solito dopo il quinto. Su tutti c’è il Pensionato, che ispeziona la spiaggia come se fosse Rommel, calcola l’inclinazione dell’ombrellone e la possibile ombra che andrà rubata dal suo vicino, che poi ci proverà con la sua pensione, causa dell’innalzamento della pressione e conseguente perdita della memoria del giorno, convinto di essere nella sua giovinezza ci proverà con la Giulietta, dirà al Curioso di essere alla prima esperienza lavorativa, vorrà picchiarsi col Bastardo e guarderà alle operazioni da spiaggia dell’Ingegnere con la stessa meraviglia che aveva per i trenini elettrici.

 

2.

epa03747242 Backdropped by the French alps, kids jump into Lake Geneva, enjoying the  sunny and warm weather in Lutry Beach, near Lausanne, southwestern Switzerland, 16 June 2013.  EPA/LAURENT GILLIERON

Una giornata a mare è un capriccio, a volte una scommessa, quasi mai un piano che riesce alla perfezione. C’è chi cerca la spiaggia lontana, chi quella migliore, chi insegue una avventura di mezza giornata, chi invece si accontenta, e nell’accontentarsi riesce a oltrepassare l’orrore del quotidiano: viaggia più di Tiziano Sclavi e dei suoi incubi, omette divieti, scavalca muri e riesce persino a non vedere quello che gli sta intorno. E spesso non sono i Caraibi. Un po’ incosciente, un po’ cieco, con moltissima fantasia o disperazione chissà, perché guardando a orecchio il lungomare Clemente Tafuri di Salerno si può vedere altro, secondo un rapido sondaggio: il mare di sempre, il mare di ieri, il mare e basta. Una giornata in spiaggia, quella sotto casa o quella a due fermate di bus, spesso è una ricerca di dettagli interiori, almeno così la mettono giù quelli che poi si stendono a ridosso della strada. Si cercano il loro spazio, la loro preziosa occasione per soddisfare il capriccio che non collima proprio del tutto con l’idea di una giornata a mare, ma non importa, quello che conta è esserci, realizzare una condizione primaria: sdraiarsi al sole, presupposto che domina sugli altri: tipo avere un posto accettabile. A seguire questa teoria del “tanto dura poche ore”, sono in molti, coraggiosi cercatori di raggi di sole. E non importa che la spiaggia sia a ridosso delle barchette ormeggiate o vista navi cargo, che ci siano piste di gabbiani, cantieri, divieti di balneazione, pale meccaniche e betoniere in azione, quello che conta è la conquista della posizione da mare, quella della apparente pace interiore che fa dimenticare tutto o quasi, anche quello che poi tornerà con prepotenza. Come con prepotenza si mescolano le due Salerno, la prima: quella che sceglie la “Conchiglia” con la piscina vista mare, gli ombrelloni in ordine, le sdraio a tema e quella che a destra e a sinistra si depone sulla sabbia nera, le pietre decorare da cuori di spray e da bottiglie di Heineken vuote. Non c’è contestazione né partecipazione ma indifferenza. Si procede per contrasti laddove si ordina e protegge ai lati ci si disordina e ci si immerge senza protezione, tanto che una anziana ormai argillosa, di troppo sole preso, nonostante l’estate intermittente, con una scia di stelle blu sbiadite che le camminano sulla schiena – tatuate anni fa quando lei aveva la forza di prendere un traghetto per la costiera amalfitana – può rispondermi: «Non ci trovo niente di male» e alzando le spalle, allontanarsi a prendere il suo terzo o quarto bagno della giornata. A ridosso dell’Arena del Mare, invece, c’è la seconda, e in piedi su un muretto, una muscolosa donna con costume giallo girasole che sventola un telo vinaccia e urla in una lingua misteriosa, cose, ai bimbi che, sotto i suoi occhi, si producono in mirabili, pericolosi, tuffi. Sarà il terrore educativo, quello che da anni manca ai bambini meridionali, ormai sopraffatti non da urla misteriose ma da attenzioni morbose. E, a guardarli, questi, che non sono bimbi italiani, sembra di vedere una giostra di povertà che a noi manca da tempo, qua non c’è pigrizia ma obbligo o questo mare o niente mare, e allora si passa all’indulgenza assoluta anche se dispiace che non ci sia di meglio alla portata di tutti. Che una città che ha fatto dell’estetica una solida base, del gusto un linguaggio, poi non riesca ad avere un posto accettabile per chi vuole una giornata di mare normale. Ripeto magari loro nemmeno lo vedono, nemmeno lo chiedono, ma io sì. Lo vedo e lo chiedo. Anche perché, andando avanti fino a Santa Teresa, appare una distesa di essere umani che hanno deciso di fondare la loro giornata sul sadismo e non sul divertimento, viene da chiedersi cosa lasci queste persone, in una sorta di trance da opaca irrazionalità, indifferenti ai rumori di pale meccaniche, escavatori e betoniere, prigionieri – tra l’altro – di una rete arancione da cantiere, e lì, pronti, a divertirsi ai piedi cementosi del Crescent. Deve essere una sorta di deriva dell’amore domestico che si estende a quello cittadino, unito a una pigrizia molto più grande della disperazione, che li porta oltre il colore fangoso del mare prima ancora della loro ostinata e tetra visione del bello. Posso capire la ricerca della solitudine in città, una qualsiasi, magari più grande di Salerno, ma una giornata a mare così è la ricerca di un assolutismo da incolpevole trasandatezza. A una prima occhiata c’è una apparente umanità da pullman, persino facce che si potrebbero vedere in aereo, e che nelle due condizioni, forse, sarebbero pronte anche a lamentarsi di un eventuale disservizio, mi riferisco alle due ragazze in topless sfuggite a una normale giornata di tedio, la cui altra possibilità è ratificata dal tessuto dei loro costumi. E su tutti: i ragazzi e gli anziani, i bimbi e le loro coraggiose mamme che urlano dritte sui muri come se fossero casseri, c’è un’ombra, vistosa, ingombrante, che è quella dei santi impossibili, quella che investe gli uomini e le donne che non avranno altro forse perché non sanno che c’è altro, che non vorranno altro forse perché non sanno che si può non solo desiderarlo ma anche domandarlo. E allora Salerno, per quante Zaha Hadid metta in fila, conserva questo catastrofico progressismo che si declina sulle piccole nere spiagge tra una colata e l’altra di cemento, rendendosi una subalterna ambigua occasione mancata. Infine, ho una obiezione fatua: Come ci comportiamo con i sogni di queste persone? Perché manca uno strutturalismo delle aspirazioni, e, così, anche il semplice capriccio di una giornata di mare, a Salerno città, merita di più, persino per chi non lo sa. Un eden non estremo ma domestico, con piccole spiagge pulite, che diventano trampolini senza tuffi, di abitudine al bello e di ricerca dell’altro geografico, in attesa di poterlo affrontare.

 

3.

120249987_10La spiaggia è sotto la strada, ti appare dopo una curva a gomito, è tutto stretto a Cetara, ridotto al minimo. E più il sole intorpidisce i desideri di sistemarsi meglio, più cresce la tolleranza verso l’arrangiarsi. Così, negli anni, si è consolidata una cultura della sopportazione che è qualcosa che arriva fino al mare. È tutta la costiera così, in alcuni punti con più spazio, in altri con molto meno, dall’acqua alla terra arriva il comandamento che dice: Ti devi stringere, stando attento, accorto, paziente, tra massi e barche, barchette, motoscafi, gommoni. Ti devi stringere, come un virus arriva agli ombrelloni in spiaggia e poi sale lungo le pietre e l’aria, bussa alle porte: una di fianco all’altra a meno di un braccio steso, alle scale: sempre strette e mai della stessa misura, alle strade: una sola per una macchina e mezza, il resto meno, sempre meno, fino a farsi esile prova a piedi, alle finestre che sono occhi da orientale, alle case che sembrano proprio quella foto che abbiam tutti dell’ultimo giorno di scuola, uno sull’altro, in piedi, abbracciati, accovacciati, raffazzonati per starci perché lo spazio quello è, appunto, e quello rimane anche dopo la foto, aggiungici il problema del parcheggio e capisci, che ti devi stare, prima ancora di stringerti. E allora il mare diventa liberazione non solo dal caldo: prendendoti un bagno, ma principalmente dallo sguardo che ti concede tutto lo spazio che ti manca, se non è un giorno di affollamento, in quel caso ti resta solo il cielo, proprio come nelle ore d’aria in carcere. E pure la spiaggia infossata, in giorni come questi, traboccante di gente, replica il miracolo della sopportazione, in alcuni momenti le cose si sono messe male, quando una di quelle apprensivissime madri italiane, tutta presa dal racconto di sé, ha perso il suo Gigino, la cosa è durata non meno di due minuti che però sono sembrati secoli, il nome del bimbo (7 anni, tipo sveglio) è stato dilatato a sirena e tutti, proprio tutti, anche i pensionati sordi, abbiamo rischiato l’instabilità, tutto il comandamento della costiera stava per andare a farsi benedire, minando la già difficile situazione di spazio ridotto, e quando eravamo pronti a una arena da spiaggia, dove ne sarebbe rimasto uno solo, ecco che Gigino è ricomparso, e gli schiaffi sul culo mollati dalla madre sono apparsi la giusta punizione per aver incrinato la labilissima stabilità davanti al mare. Gli unici rimasti calmi erano due tedeschi che devono aver scambiato la cosa come un folkloristico gioco da spiaggia, io avevo già pensato di farmi scudo con i loro corpi dell’eventuale avanzata per la conquista di un gommone da fuga. Ma tutto è tornato alla normalità, ci sono turni per scendere in acqua, turni per uscire, per asciugarsi, voltarsi senza violare lo spazio assegnato, turni per andare a mangiare o bere, scendere e salire, e turni per lasciare e prendere ombrelloni o teli, mentre questa involontaria ed efficacissima giostra di esseri umani respira e si muove, smaltendo lo pseudo tempo libero o di vacanza a ridosso del mare, l’unica anomalia sono le coppie di sposi. Arrivano in macchine scure, imponenti a volte persino scintillanti o decapottabili, scendono eseguendo gli ordini dei fotografi, si mettono in posa, sorridono, una due tre volte, acquisendo la falsità delle cartoline. È un pellegrinaggio malinconico il loro, anche perché devono subire gli sguardi dei bagnanti, veri e propri coloni insediati, seppure per poche ore ma pronti a difendere il piccolo spazio occupato. E nell’incontro, anche se a distanza, tra coppie di sposi e bagnanti, a dispetto di acqua sabbia e pietre, c’è lo scambio tra due condizioni fragilissime: quella del bagnante in costiera e quella degli sposi, questi in una condizione di libertà maggiore se non ricapiteranno qui come bagnanti e si ritroveranno altre coppie che sfilano per le foto, creando una condizione di ripetizione e angoscia, di ricordi e recriminazioni, forse anche per la perdita dell’enfasi poetica che avevano nel giorno del matrimonio. E il tempo che rimane ai bagnanti e agli sposi che vanno verso una nuova location – come direbbe un fotografo di matrimoni – è un tempo convalescente. Ai bagnanti non resta che buttarsi in acqua e agli sposi di immergersi nel resto delle pose. Tutti con una ruvidezza immediata che è l’unico modo di dimenticare la misura del vuoto. Il vuoto che prima non avevano percepito, i bagnanti, stando stipati sulla piccola spiaggia, e le coppie di sposi impegnate a cavalcare il loro tempo sospeso. E, questi, che, sono impercettibili sforzi, manovre interne cariche di pensieri che lentamente si trasformano in azioni, si declinano tutti al singolare, anche se ripetuti in batteria. Orbite di fughe. Mentre il rumore del mare, incessante, batte sulla spiaggia e segna il giorno. E la schiena di un vecchio, rugosa come un tronco d’albero che mi appare davanti, diventa la possibilità di conquistare spazio, perché sta andando via, si è chinato a raccogliere le sue cose, e le ordina con una lentezza da tramonto. E gli conto le bracciate come fosse un primatista di nuoto. Poi arriva un gruppo di surfisti, che già solo al pensiero che a Cetara ci siano: mette allegria – chissà come faranno – però prevale la preparazione delle loro tavole, la cura con la quale le bagnano, l’organizzazione non caotica nonostante il pochissimo spazio. E, quando si avviano, pancia sulle tavole da surf, capisco che bisogna essere pronti al sacrificio e all’evenienza di una condizione precaria, seguire la loro elementarità nello sfidare il mare, nell’aspettare le onde, che poi è  la chiave per capire Cetara e la costiera intera, tutta in bilico, un muro chiaro sull’altro, casa chiara su casa chiara, a girare intorno alla chiesa, con la torre a picco sul mare. «È solo acqua che s’alza e poi cade, tutto sta nel saper avere equilibrio», mi dice un surfista, prima di seguire gli altri.

 

4.

910_292Ci sono spiagge da vivere e rivivere, spiagge da rivedere, e spiagge già vissute, come se fossero piazze. Una si trova a Santa Maria di Castellabate. Alla fine del corso si apre sulla destra, ha una statua della Madonna davanti alla quale tutti si segnano prima di scendere in spiaggia, e, molti, dopo essersi segnati e prima di andare a prendersi un bagno, lasciano la carrozzina del proprio figlio, un affido del mezzo che suona come un ex voto. Lo slargo di sabbia affaccia sul golfo, gli scogli a difesa e con la linea della costa che si fa confuso orizzonte, l’acqua limpida nonostante il gran numero di persone, e il suo odore che sale forte e ti invade le narici anche se deve lottare col profumo di ragù, e, sotto, l’atmosfera del già visto, vissuto, sentito. Con i balconi ornati di teli umidi e salati e le madri che chiamano i figli da casa per farli tornare, perché questa spiaggia, della Madonna, è una piazza, senti la familiarità subito anche se non sei di qui, anche se non ci sei mai venuto, è una voce che si fa amica subito. Poi c’è anche chi ci lascia il cuore e chi invece dei soldi, perdendoseli a carte o per distrazione, con tutti i segreti, quelli veri che appartengono solo al mare. La spiaggia-piazza è così: ti analizza e poi ti ingoia, anche se te ne stai da solo, anche se non scendi in acqua, sei sempre parte. Anzi se ti va bene solo dopo un quarto d’ora arriva il veterano che ti chiede se appartieni, se sei uno cresciuto lontano, un nostalgico, o sei uno nuovo che poi nuovo non sei, e da lì parte il decalogo, che può essere di due tipi: spirituale o materiale. Il primo contempla l’importanza e il rispetto del paese da amare, la possibilità di avere, appunto, una piazza sul mare e per giunta di sabbia. Il secondo invece è un insieme di indicazioni pratiche: dove dormire, mangiare, divertirsi (spesso questo percorso viene disegnato in base all’economia di famiglia), con un inserto finale che è una dichiarazione di guerra a tutti gli altri posti limitrofi, la cui colpa è di non appartenere allo stesso comune. Quando il veterano ti lascia, se ti lascia, è come se vivessi lì da anni, sai tutto sulle case, i problemi di parcheggio, i locali da frequentare, i patti da chiedere, le feste da santificare e le possibilità che potresti avere nei giorni a venire. Mentre ti muovi tra ombrelloni, tavolini, e una folla di sconosciuti che man mano ti avvolgono divenendo conosciutissimi, che mangiano (quasi tutti), parlano (tutti), leggono (pochissimi). E l’argomento anche se può sembrare strano, di cui si dibatte, che salta da una sdraio all’altra non è la meteorologia, ma un ragazzino di nome Luca o Gianni (ci sono sempre due scuole) che rischiava di annegare o che voleva annegarsi (vedi sopra) ma ha decisamente sbagliato posto o è stato fortunatissimo. È il bello della spiaggia-piazza. Qui è impossibile avere un momento o un posto speciale, smultronställe, direbbero gli svedesi. C’è sempre qualcuno che ti sta controllando, c’è sempre qualcuno che si sta occupando di te, fosse anche solo per curiosità, spesso non è fatto con cattiveria, si tratta di purissima abitudine. Una sorte di educazione alle azioni dell’altro e volendo alle parole, sui pensieri ci lavorano ancora male. Ma è in questo tipo di spiagge che si possono scoprire un mucchio di cose inutili che però mettono di buon umore, è come avere una di quelle rubriche “non tutti sanno che” come colonna sonora. A volte sono notizie nazionali, molto più spesso notizie localissime. Come scoprire cosa si prova a scendere a mare a 92 anni, e a raccontarlo non è Radio Spiaggia ma la signora che porta in giro benissimo i suoi anni, e lo fa con una voce sottilissima che viene scavalcata da quella più squillante di una ragazza che, invece, racconta come l’accesso al Miur per le supplenze a scuola sia più difficile delle eliminatorie di Miss Italia. E dove se alzi gli occhi, da questi discorsi, passano ancora gli aerei con le pubblicità, e io che pensavo fosse una cosa da anni ’90. Invece un biposto arancione con strisce nere si trascina in cielo un noto marchio di pasta. E mentre sulle nostre teste passano i consigli per il pranzo, sulla spiaggia compare un carro di gonfiabili: pesci rossi grandi come sanbernardo, delfini come scooter, coccodrilli in misura reale, canotti, braccioli, salvagente di ogni ordine, grado e colore, palle, palloni, pinne, occhiali e no niente fucili, insomma un vero arsenale da mare, una rivendicazione – in aria gonfiata – del divertimento da spiaggia. A me viene da pensare che questo ragazzo che trascina il carro – che poi è un enorme stampella longitudinale – sia un utopista del gioco, e come tutti gli utopisti non bada ai mezzi, pur di rendere felice gli uomini. E, infatti, intorno si forma subito un girotondo di bambini e bambine, e la parte più bella sono quelli che lasciano l’acqua per il nuovo sogno, la vecchia ciambella per la nuova, riproducendo – a loro insaputa – la modalità sulla quale si regge l’Occidente. Lasciare tutto in funzione del nuovo, dove tutto è la merce, un bene materiale sostituibile. E ancora più bella da vedere è la corsa in marcatura dei genitori dei ragazzi che provano a metterli al riparo dai nuovi desideri, invano. C’è chi copre gli occhi, chi prende in braccio il proprio bimbo e si gira con un colpo di fianchi da fare invidia a Rihanna, chi si improvvisa predicatore, chi promette cose assurde, non preoccupandosi della Bce, pur di sfangarla. Il risultato – a parte i nuovi arrivati o quelli che hanno avuto la fortuna del ritorno del padre per il ferragosto che si lanciano in una asta da Wall Street – sono pianti, punizioni, e musi lunghi. Dittatura del desiderio che, anche se in spiaggia è ridotta al minimo, muove buona parte dell’infanzia, e dopo, crescendo, si sposta in piccolo con la carnalità. È la precaria traballante sopravvivenza – al tempo della crisi – sotto al sole d’agosto.

 

5.

Hunter S. ThompsonA Punta Licosa non c’è una vera e propria spiaggia, ci sono delle curve di pietra che si sono lasciate scavare più a fondo di altre e che sono diventate degli incavi: dove poter prendere un bagno. Con molta difficoltà. È questa la sua bellezza: enorme e dispari. È come avere la Scozia ma bonsai con clima della California. E prima ancora di raggiungere gli incavi bisogna camminare tra gli alberi, cercandosi il posto dove immergersi, oppure continuare solo per la bellezza di stare in silenzio, guardando il mare, incontrando poca gente, nonostante sia Agosto. Alla gente non piace tutto quello che non è in piano, hanno un continuo bisogno di stare comodi. La maggior parte della gente non concepisce il mare come avventura – anche perché non tutti possono permettersi una barca – ma solo come svolgimento compulsivo del bagno e dell’asciugarsi, e di conseguenza anche la spiaggia deve solo essere funzionale allo stare distesi. Lo stare in equilibro o alla ricerca non è contemplato che per pochi. In realtà Punta Licosa è una avventura, superando i cancelli dal lato Castellabate, comincia un viaggio che si declina in modo differente per ogni singolo viaggiatore. Uno si sceglie se camminare in punta di costa sul mare, se sotto gli alberi o in mezzo intravedendo l’azzurro dell’acqua a scatti tra le finestre irregolari che gli alberi hanno lasciato. Io dopo qualche chilometro di cammino lungo la costa mi sono seduto, e mi è proprio venuto da aspettare. Non che avessi un appuntamento con qualcuno no, è stato naturale sedermi e aspettare. Sapete una di quelle cose che facciamo per istinto, si dice, che ci viene una voglia improvvisa, davanti alla quale cediamo anche se non abbiamo dei motivi validi per giustificarci, nemmeno con noi stessi. E mentre me ne stavo seduto a guardarmi il golfo, preso dall’attesa mi son chiesto ma perché ci piace tanto aspettare? Ci diamo appuntamenti dove arriviamo in anticipo (almeno io), ecco meglio dire dove arrivo in anticipo sempre, e mi metto a leggere tutto quello che trovo, a cercare di capire che posto è: se non lo conosco; o se lo conosco lo ripasso come se fosse un poesia, cerco dettagli che non ricordavo, magari qualcuno ha scritto sul muro una rivendicazione di qualche natura o si è posto una domanda, e magari provo a rispondere, intanto che aspetto. Come ora a Punta Licosa, seduto di fronte al mare, dove mi domando perché aspettiamo, e allora mi torna in mente la risposta che aveva dato Peter Bichsel, uno scrittore svizzero di lingua tedesca, che diceva una cosa tipo: «Probabilmente perché non c’è niente che abbiamo imparato con tanto dolore quanto l’attesa, aspettare la scuola materna, la scuola elementare, la fine delle scuole, di andare in pensione o addirittura aspettare di aspettare». Adesso io non so se è proprio così, però a me qua davanti al mare, con queste rocce che sembrano oblique di proposito per mettere in discussione lo stare distesi della maggior parte degli uomini, a me pare una risposta che posso tenermi, soddisfacente. E forse sarà che davvero in questo incavo di pietra si perde il tempo – sono sceso – dopo aver evitato la prima conca libera: dove c’era una attempata signora straniera: Wall Street Journal, spiegazzato di lato, pelle bianchissima, quasi nuda con un cappello di paglia, un costume marrone e un telo giallo che sembrava lo stesso giallo delle rocce oblique, una borsa a fiori e degli zoccoli con la cinghia blu, tutto disposto in cerchio; dico a stare nel poco spazio che si apre sul mare, diviso da altre rocce che aguzze spuntano qua e là nell’acqua, sembra che possa succedere di tutto: che attracchi Ulisse, che salga una sirena a dirmi dei suoi problemi sindacali dovuti a turni snervanti di apparizioni e sparizioni, o persino l’ammiraglio Caracciolo con alla spalle il suo nemico Nelson. Punta Licosa è un posto così, dove si confonde il tempo, dove prima di scendere a mare, prima di prenderti un bagno, prima ancora di sceglierti un posto, senti che potresti imparare ad aspettare, se non lo sai fare, e se invece non fai altro che aspettare, allora è la stazione delle tue attese migliori, un posto non molto trafficato, forse più a largo che sulla costa, e mentre lo fai puoi contare le imbarcazioni che passano, i pochi che incontri, oppure ripassare quello che hai messo da parte in questi anni e farne un elenco. Mentre ho fatto il mio, è passata una famiglia di boyscout – che sono la moda dell’estate – padre madre e due bimbi, tutti equipaggiati come se dovessero affrontare il K2, con provviste di giorni, e una disciplina che però faceva molta tenerezza. È passata una ragazza delusa – non dal paesaggio potete giurarci né dal mare – inseguita dal deludente che scandiva il suo nome – Cristinaaaaaa – in una variegata scala di tonalità che erano imprecazioni. È passato un anziano che si è anche fermato a rassicurarmi – senza che io lo chiedessi – sul meteo dei giorni a venire. Infine sono rimasto solo con la mia attesa, anche perché Punta Licosa è un punto di assenza, certo ogni tanto passa una macchina, certo ogni tanto sfila veloce un motoscafo, ma il resto è silenzio tra rocce e alberi: un saliscendi irregolare percorso dal vento. È una spiaggia che non è spiaggia, è piuttosto un bosco che si concede al mare, e no, non ci sono ombrelloni. E viene da pensare che a starsene qua in attesa, a leggere le rocce, scavate dal mare, è come leggere quelle scritte che passano sotto le immagini in tivù, i sottopancia, solo che sono in una lingua che non conosciamo e che in pochi imparano. E passa un flusso enorme di informazioni che ci perdiamo, una marea di storie incise, che ci vorrebbe Roger Caillois. E, quando, riprendo il mio sentiero, sono avvolto dal pallido colore del sole che ne sta andando, dalle ombre degli alberi che si allungano fino alle rocce che scendono in mare, facendosi notte, un unico colore che avvolgerà tutto.

 

6.

120249742_10E poi ci sono le spiagge di quantità, gonfie di vita come quella di Trentova, ad Agropoli. Non le tieni, cambiano faccia alle cose di continuo, le rimescolano, scompigliano, sembrano supermercati per quanta gente c’è, per quanta vita distribuita in corpi, tristezza delle donne compresa, ti ritrovi davanti. Sono spiagge senza tregua, non riesci a immaginarle vuote, e infatti non lo diventano neanche dopo il tramonto, cambiano solo le facce, i suoni, i sentimenti. Sono altari di fronte al mare dove si consumano riti su riti, dove i pensieri rimangono a galleggiare sull’acqua come se quello fosse il loro compito, e tu puoi passare e leggerli, sì, anche i più osceni. A guardarla dall’alto sembra una città di fronte al mare, disordinata a tratti, e in attesa che accada qualcosa, poi non accade niente, si consuma solo il rito della giornata, stare – perlopiù – a lasciarsi consumare dal sole, chiedendo tregua all’acqua. Ho sempre l’impressione che la gente in spiaggia si senta più viva che di solito, alcuni persino immortali, almeno è la risposta che mi sono dato rispetto ai loro comportamenti. Certo puoi vedere come il tempo ti ha sfasciato la vita, fare i conti con i tuoi giorni lontani, con i tuoi pranzi e cene, e ritrovarti a fare un bilancio che a volte causa depressione altre scatena buonumori contagiosissimi. La spiaggia è anche specchio, sembra una faccenda da grandi speranze, ma non lo è, alla fine qualunque sia l’immagine riflessa, finisci tramortito sulla sabbia col caldo che si fa massaggio ovattato fino ad addormentarti. Ti metti ad asciugare corpo e peccato, sincerità e viltà, avendo vinto le minacce del mare, avendo liberato tutto l’istinto possibile con una velocità decisa dagli anni. C’è chi ha da perdersi e rovinarsi chi solo da abbronzarsi, e tutti hanno l’aria complice di chi si è meritato questa giornata. I teli segnano le solitudini, dividono la gente tracciando confini labilissimi, dove i bambini scorrono come palle da bowling e sono gli unici che possono permettersi il lusso di abbattere le frontiere, lasciarsi andare all’incontrollato dominio degli eventi. Se non ci fosse la lingua a connotare la geografia di questa spiaggia potresti dire che siamo ovunque, ovunque arrivi la clandestinità della malinconia. E allora giù vecchi e no, con improbabili costumi a strisce, su teli che sembrano illuminati dai neon, interni disfatti, parati portati in riva al mare, palette e bastoni, giornali e facce rotonde che senza barba sembrano mongolfiere in attesa d’essere alleggerite. C’è chi è rimasto fedele a se stesso e ai colori di quaranta anni fa, e addosso si porta il silenzio dell’essere adolescenti, ancora oggi, la tristezza d’aver perduto il momento adatto per cambiare, e allora ti accorgi che sì, anche un costume è una bandiera, la bandiera di uno stato che non è mai diventato sovrano e indipendente, ma ha lasciato che tutto gli scorresse di fianco, come ora passano tre ragazzine che invece non hanno ancora conosciuto il buio delle strade e della vita, e forse non lo conosceranno mai. A Trentova ti può capitare di incontrare una donna in costume intero rosa alla guida di una Moto Guzzi, e non ha vent’anni, ma un cappello da regina d’Inghilterra e uno zaino a forma d’elefante; di vedere dormire su un tappeto di simil rose: uno Strauss-Kahn con bandana bianca e costume striminzito blu; di vedere una ragazza in costume nero a pallini bianchi, faccia coperta da una maglia, adagiata su due materassini e un telo rosa che omaggia il Tetris;  un marcantonio già biscottato con tanga disteso in diagonale su un telo di vera zebra; si può vedere una ciambella scindersi dall’olio che l’ha fritta tra le mani di una grossa signora dalla pelle bianca come un fiocco di neve, fasciata da un costume che ricorda i sogni delle notti indiane dei Beatles; di vedere un uomo con un cappello da marinano senza averne la faccia, teli che sembrano arche di Noé, e grossi costumi neri, interi, capaci di contenere una tale quantità di carne da generare più malinconia di un tango, e poi dispense universitarie di chi ci prova a studiare in spiaggia, trecce che a sera verranno sciolte, pizze e panini, paste e sfogliatelle, scamorze gocciolanti, selfie di facce su facce, capelli di carbone e cappelli colorati come pappagalli, gambe muscolose, un bar chiamato Jamaica, branchi di giovani addobbati di plastica, labirinti di borse frigo e spettri fluttuanti di madri che inseguono figli per costringerli a mangiare rinunciando al bagno, e una faccia allungata dall’inquietudine della prima volta a mare col bimbo appena avuto. È qui che la spiaggia di Trentova si fa quartiere, urlante, scomposto, senza muri e con le macchine lasciate al sole, dove i panni si stendono sotto gli ombrelloni. Il barrio Trentova che non ha ombre né strade ampie, dove tutto è continuo, niente è nascosto, e si viene travolti dalle discussioni degli altri, con gli sguardi che si mischiano e la musica che si perde, aspettando che qualcuno dica: «Torniamo in città», per allargarsi e giocarsi l’ultima ora nell’ampiezza da padrone. Quando anche la luce è allo iodio, tutto si tinge di giallo, persino le pelli rosse da primo giorno di troppo sole, e il grande centro commerciale: sparisce. Lascia lo spazio a queste armate che tornano dal fronte del mare, risalgono la collina che li rimetterà nei loro vestiti e nelle loro vite d’ordinanza, e prima in una lunga fila d’auto. Per questo procedono lenti, zigzagando, benedicono il tergiversare dei figli, il loro eterno perdersi oggetti e indumenti, ritardano il varco, restano ancora un po’ sul grande bastimento di sabbia, dove hanno sognato e dimenticato, lasciandosi spremere dal sole e dal suo transito sui loro corpi. E il loro brusio si unisce al cicaleggio, nel suono si annodano umanità e natura, cercando un sincrono in quel grande penitenziario che è la vita lontano dal mare.

 

7.

Surfing-12Nella Baia di Ogliastro Marina c’è una spiaggia che appare e scompare, viene sommersa dal mare e poi riemerge. C’è chi per regolarsi guarda l’andamento delle maree e chi conta gli ombrelloni, molto più semplicemente. È un gioco, che è un tormento per chi ha ristoranti e alberghi su quel lato della baia, ed è un diversivo per chi invece va solo a prendersi un bagno. Quanta spiaggia ci sarà oggi? Oggi la spiaggia c’è? E fino a quando? Anche perché in quel punto, è limpidissima e a leggere siti e associazioni che si occupano di classificare l’acqua del mare, anche pulitissima. Una spiaggia a scomparsa è un posto raro, da farci ragionare su i bambini. Eppure non serve a suscitare un maggiore rispetto in quelli con più anni, la certezza di sapere che tornerà, gli permette di infischiarsene. È come vedere una luce spegnersi e accendersi, con l’aggiunta che non si vede spesso spegnersi e accendersi una spiaggia, scendere e salire, esserci e non esserci, insomma un dondolo di terra in balia dell’acqua. La mattina che ci vado, la spiaggia c’è, si possono infilare tre ombrelloni di seguito stretti tra loro, non ho controllato le fasi lunari, ma trovo un pensionato che lo fa regolandosi di conseguenza. Magari a voi pare una cosa normale, a me proprio no. Non riesco a trovare nessuno che ne tragga sinistri editti dal salire e scendere dell’acqua, ma trovo invece una signora che dice di sapere del gioco in base ai suoi dolori fisici, i piccoli dolori che la avvertono se vale la pena di scendere giù fino alla spiaggia e trovarla, non «potendole telefonare», ridendo. E mentre ride, mi mostra contando il suo rito, un piede dietro l’altro (misura 36) conta i passi che questa mattina il mare concede. La signora Ada è una di quelle donne che nonostante l’età, i piccoli dolori, la pelle consumata, conservano una bellezza che non so definire meglio di aristocratica, è come se avessero avuto il bene di stare un po’ più su degli altri. Sono leggere e allo stesso tempo riescono a non perdersi nella loro leggerezza, piazzando all’improvviso una frase di stupore. Ha passato la vita in un ministero, ha sistemato i due figli, e nel momento che poteva tornare qua con serenità ha perso il marito, «e allora ci sono tornata per ricordarlo» e «questo scendere e salire dell’acqua mi ricorda il perdere e vincere della vita». E quando le chiedo cosa sia cambiato qua, sulla spiaggia che scompare, allunga il braccio ad indicare la schiera di motoscafi, barche, barchette e yacht che ci stanno di fronte nella baia. Ogni tanto un gommone ne porta a riva un gruppo che sale a mangiare a ristorante. «Certe volte è meglio quando la spiaggia non c’è», mi dice invece un’altra donna, la signora Gemma. Ma non vuole spiegarmi il suo tono, certamente polemico. È come se qui si fosse riunita buona parte di quella razza che passa l’anzianità a osservare le cose che si muovono.  E no, non vuole essere disturbata. Io la vedo come un termometro, questa spiaggetta, che regola le giornate di tutte queste persone, perlopiù anziane, poi nella tarda mattinata arriveranno molti stranieri, e tanti ragazzi e ragazze. Mi ha molto colpito come un padre con moglie e figlioletta scatenate tra tuffi e nuotate, sia stato tutto il tempo fermo a custodia di un materassino coloratissimo, davvero una funzione di sentinella paziente che non passava inosservato, sarà stata la sua totale mancanza di confidenza col mare, sarà stato il suo attaccamento alle cose, oppure altro che non sono riuscito a capire, ma ho pensato che solo un posto così poteva tenersi un uomo del genere, inchiodato a un metro dalla riva, con una mano salda a governare un materassino colorato, mentre intorno a lui, moglie e figlioletta si scatenavano come se fossero a giochi senza frontiere. Questo è il massimo che può accadere qui, perché tutti gli eventi sono nell’oscillazione della spiaggia, nel pomeriggio invece assisterò a una scena degna di Oliver Hardy e Stan Lauren: una coppia, lui un lottatore di wrestling e lei una acciuga, portano in acqua i loro due lettini, e provano a togliere insieme l’acqua prima di sdraiarsi, e si impegnano per un bel po’ prima di rassegnarsi alle onde e rinunciare a sdraiarsi. C’ ho visto un chiaro segno della fine del mondo, lottare contro le leggi della fisica. È come se l’anomalia della spiaggia, di questo posto, si impastasse con la stranezza di queste persone che compiono in acqua azioni buffissime e senza logica. È un magnete che li porta qua, ne direziona il flusso, e li spedisce, una sorta di limbo del recupero, dove l’oscillazione della terra misura la loro possibilità di farcela, di uscire dall’oscurità che li abita. E mentre l’acqua arriva qua attraverso una rotta ramificata e precisa, lavorando il muro di tufo che chiuda la scatola di gioco sabbioso, queste persone ci arrivano attirati dall’occasione di misurare e misurarsi. Insieme formano un blocco unico: che oscilla seguendo l’oscillazione del mare. E se intorno il paesaggio garantisce un equilibro tra costruzioni e rocce, verde e azzurro, è nell’approssimazione di queste persone che si consuma un vero e proprio bestiario da spiaggia. È come assistere a una fissione, dove però la quantità di energia prodotta dagli umani – e anche la loro capacità di aspettativa – è enorme, un plusvalore energetico che, però, va perduto in azioni inutili. Tanto che si ha l’impressione che tutti siano qua, ad aspettare un indeterminato languore. Dove tutto appare come un infinito sfinimento senza ragione, governato – come un pistone naturale – dal saliscendi della spiaggia. Perché risente del non averne saputo fare una epopea, del non averne saputo tirar fuori uno stabilimento – non balneare – ma dello stupore. Intanto, si è abbassato il cielo, con una scura nuvolaglia che pressa il calore sulla pelle, incoperchiando l’anima di questi uomini e donne che sperano.

 

8.

iPer essere davvero liberi certi giorni d’estate non occorre avere documenti o soldi, basta una spiaggia deserta nascosta da una pineta e un mare, un mare discreto. A farla tutta la litoranea da Salerno a Paestum si incontrano prima stabilimenti e desideri, e poi il mare, nascosto da una lunghissima striscia di alberi. E in mezzo c’è un tale casino di storie che viene da chiedersi come mai sia un luogo abbandonato. E, anche, come accada che certi posti, pur resistendo, conservando bellezza, si perdano, cedendo a quello che non sono. Quasi ricollocandosi in un’altra natura. Diventando inquietanti. È il Polo Sud della Domiziana, l’altra, più antica, strada litoranea della Campania, però qui c’è meno folla di criminali, e qualche speranza in più. Ci sono strade che mettono soggezione e non perché portano in posti bellissimi o perché ti lasciano sentire la puzza di cose spaventose, no, perché ti mostrano come sia facile perdersi, come basti poco per cedere e diventare altro. E se sulla spiaggia, libera, poco affollata e molto sporca, anche una africana – costretta a prostituirsi – può sentirsi come tutti e prendersi un bagno, lasciando da parte il mercato a noleggio che è costretta a subire, allora un poco lo capisci l’abbandono che si fa possibilità. Questa strada, come appunto la Domiziana, sembra sul punto di cedere, di trasformarsi, sperperandosi fino a rendersi incontrollabile da chi governa, anche se ora c’è una quiete che pare confidenza, ti abbraccia ti dà del tu, e ti invita a restare, ma basta scendere, guardare meglio nella pineta, scavalcare le ragazze e i ragazzi nigeriani, o i ragazzi e le ragazze dell’est, per essere colpiti in pieno dall’incantesimo del degrado, che ti si riversa addosso, per inciampare in rifiuti e devastazioni, e per stupirsi di come una strada che potrebbe essere un vanto sia, invece, inclinata verso il peggio. La strada è un pettine, si apre verso il mare con delle traverse che tagliano la pineta, e ogni traversa ha diverse ragazze e un parcheggiatore, che ti propone anche altre modalità di divertimento, si fa custode di desideri e risolutore di problemi, e in fondo, dopo i rifiuti, arriva l’acqua, che se la guardi senza voltarti, ti sembra normale, a volte persino troppo bella rispetto a quello che hai attraversato per arrivarci. E quelli che ci trovi distesi a prendere il sole, hanno una tale disparità, che i loro volti sono segnati. C’è il cinquantenne bassoreddito che sogna Hawaii senza voltarsi, e per non guardare recinta il suo telo da spiaggia con i tronchi, ha il portafogli in vita, tenuto dalla molla del costume e le chiavi dell’auto dentro le scarpe che annusa prima di posare, gli occhiali a goccia sulla testa calva e un pensiero alla ragazza pelle nera che lo ha tentato. E poi coppie che qui ci possono arrivare in motorino da Eboli, e chi non vuole nemmeno avere il pensiero di arrivare fino ad Agropoli, nel casino organizzato e nelle file d’auto. E su queste spiagge non si perde nessuno, perché chi arriva quaggiù ha le idee ben chiare, sa quello che offre il panorama, perché ci viene da anni. Strisce e strisce di sabbia per chi vuole essere libero dal lavoro, dal decoro, dal ristoro dei lidi. C’è una essenzialità che non solo richiede adattamento o equipaggiamento, ma che soprattutto è muta estate. Al massimo si può sentire un urlo dalla pineta, una riga bianca su riga nera che scrive un episodio di pochi minuti, e pochi soldi. E tra gemiti e rami spezzati, puoi vedere improvvisate docce con latte di plastica, archi con lattine di Coca-Cola, e persino immaginare una nazione del bosco che vive dopo il tramonto, qualcosa di perverso e poetico che fa pensare alla Louisiana, tanto che non ti meraviglieresti né di trovare un cadavere e costruirci una storia né di trovarti di fronte a scene tribali di balli e tamburi, per ogni mucchio di pietre incontrato che pare mobilia africana, e magari lo è. E puoi sentire i respiri che si sono perduti tra gli alberi prima di arrivare al mare, immaginare come non siano i pochi lampioni a illuminare queste strade al tramonto, ma le corse circolari a un solo motore, un solo pensiero, riproduzione di mille altri già passati, desideri che i ventri non estinguono che per poco. Corpi molli, sedie e materassi consumati, e l’eco di risate che cadono come pioggia. E dall’altro lato, villette a un piano completate in fretta, in origine bancarelle, trasformate con quello che avanza, chiuse per forza e con di fianco bancarelle che poi diventeranno villette seguendo lo stesso processo, una sorta di meccanica evoluzione dal legno al mattone, dal banco al bagno, dal telo al tetto. Trappole ammobiliate. E bar cadenti, che sembrano sul punto di chiudere, smettere, un mozzicone che sta per essere spento, e se non ci fossero i giornali non sapresti che anno è, né in che posto ti trovi. Intanto ti sei sporcato di uno strano vapore, malinconico, che rilasciano i posti come questo. E, fuori, ti imbatti in una carica di cavalleria, sono quelli che girano da padroni, nonostante non siano figli di questa strada, li riconosci da lontano, hanno suv orfani, così puliti da sembrare appena lucidati, e con quelli ci vanno nella pineta a farsi stringere forte per vedere se sono davvero vivi come gli dicono in banca. E sono proprio gli uomini così che restituiscono a questa strada la giusta bellezza, la trattano come se fossero i Tropici, vengono qui a caccia, riconoscendone l’esoticità. Vanno oltre tutto quello che normalmente infastidisce, e si infilano – che sia notte o giorno – tra la strada e il mare, che non ha occhi, come gli alberi. Stregati dall’uso senza possesso. E, no, su questa via non c’è traffico, come non ci sono ombrelloni in spiaggia, ma uomini e donne che vagano in preda a una schizofrenia ambulante. Nel tentativo, vano, di rendere qualcosa in cambio di quello che hanno preso.

[questa serie sulle spiagge in provincia di Salerno è uscita nell’agosto del 2014 su IL MATTINO]

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , ,

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: