Mister Kim

Mister Kim non aveva l’affetto rassegnato di certi genitori, quanto un affetto prosperoso: pronto a riprodursi in ogni momento della giornata. Per questo subito mi aveva raccontato della musica e di suo figlio, per questo non era stato formale come la maggior parte dei coreani, no, Mister Kim, apparteneva e appartiene a quella umanità che vuole farti sapere che ha una storia e te la racconta, e per raccontartela ti porta nel luogo dove si è svolta e si svolge. Sì, certo, ho pensato che fosse pazzo e che potesse uccidermi, ma l’ho seguito comunque, aveva una pistola, chissà, quello che so è che aveva sette pianoforti forse otto, spartiti ovunque, e aveva fatto di casa sua una casa della musica. Il dettaglio è che casa sua era ed è un appartamento di un grattacielo coreano, a Ulsan, per chi non conosce la location parliamo di poco spazio, ma proprio poco, e di molto ingegno, ma proprio tanto. Ma prima delle sue molte storie mi ha mostrato il suo personale vocabolario d’inglese: una sorta di Bibbia scritta a mano con tutte le parole incontrate leggendo il Financial Times, con la traduzione a lato, e anche il ritaglio di giornale in alcuni casi, se la storia lo richiedeva. Perché Mister Kim apparteneva e appartiene anche a quella parte di umanità che deve catalogare il mondo che gli passa davanti, e che nello sforzo, nella realizzazione del progetto, perde di vista l’obiettivo principale: imparare l’inglese, in questo caso – lo parla molto peggio di me solo che io non ho mai pensato di catalogare le mie scoperte linguistiche. Mister Kim è una guardia giurata che governa un check-point di un territorio che appartiene alla Hyundai, per entrare o uscire bisogna avere a che fare con lui, non so se a tutti gli stranieri – e ne passano – racconta la sua storia o se lo ha fatto con me perché arrivando alla sua sbarra stavo cantando, rimane la bellezza della sua candida confessione. Mister Kim – complice il mio interesse – prima ha preso a illustrare la sua biografia poi ha voluto mostrarmi dove si è generata, e siccome è pur sempre un coreano, non potendolo fare subito mi ha dato appuntamento alla sera, alla fine del suo turno di lavoro. Mi ha mollato il suo biglietto da visita, io ho scritto il nome del mio hotel Hyundai – qui a Ulsan è tutto nella Hyundai – il resto è stato sorrisi e giravolte, proprio come avevo visto rappresentare la felicità nei cartoni animati giapponesi. Chissà se per Mister Kim io ero una opportunità, o forse solo la possibilità di un discorso su quello che lui era riuscito a costruire fuori e dentro casa sua oppure se non ha capito chi sono e che faccio, o se ha frainteso il mio lavoro e vuole chiedermi qualcosa. Quando lo rivedo senza divisa nella hall del mio albergo ha ancora il sorriso da cartone animato e quasi non ci crede che io sia davvero interessato a visitare casa sua o quello che è diventata casa sua. Ha una Hyundai Primavera, blu, e per tutto il tempo parla come la voce di un navigatore satellitare inceppato: alternando nel suo inglese irrazionale: Verdi – provando a raccontarmi Il Trovatore che già in italiano ha una trama assurda figuriamoci nella lingua di Mister Kim –, Rossini e le strade di Ulsan, Bellini, Puccini e gli svincoli, i mercati, le nuove zone che ovviamente sta costruendo la Hyundai. Arrivati al suo palazzone dove campeggia una scritta verticale che stranamente non ha a che vedere con la Hyundai ma che non capisco nell’assurda traduzione di Mister Kim, e che mi auto-traduco come una filastrocca estetica sulla salvezza della Corea del Sud e del mondo. Forse è solo l’avviso del destino, in una lingua che ignoro, che la fine è vicina: Mister Kim è un serial killer che mi farà a pezzi, una morte incongrua rispetto al contesto. Mentre penso queste cose, immagino le scene, zac, siamo nell’appartamento che è un capolavoro, una cosa a metà tra Almodovar e il Tim Burton di “Big Fish”, nello spazio già esiguo, Mister Kim e sua moglie Mrs Kim hanno sette pianoforti: quattro a muro in altrettanti stanzini-loculo, insonorizzati, dove oltre agli allievi della signora, i coniugi Kim affittano a ore a vicini e lontani, conosciuti e sconosciuti, le loro stanze, per poter suonare. Il risultato è come quasi tutta la Corea: straniante. La filosofia nazionale che diventa identità da rotocalco. Anche perché ci sono cumuli di spartiti, foto di concerti e musicisti, un unico grande pianoforte a coda che però viene suonato solo dai padroni di casa e dal ragazzo che ha vinto il biglietto aereo per Berlino e la sua filarmonica, e due altri vecchi pianoforti che hanno una biografia fatta di onesto amore con riflessi che però non afferro nonostante gli sforzi, complice l’emozione di Mister Kim che peggiora il suo linguaggio rendendolo incomprensibile, intuisco i superlativi e il suo volenteroso entusiasmo ma poi rinuncio, la sua carica sentimentale è superiore alla capacità di racconto e sua moglie non aiuta, non parlando inglese. Ho capito che la specialità di Mister Kim sono gli aneddoti, ma non controllando la grammatica ne viene fuori un testo da riordinare, senza avere il libretto delle istruzioni. Il resto sono articoli sul figlio prodigio e succo d’uva obbligatorio, oltre una pera tagliata come un formaggio e servita come una torta, con intorno sorrisi e giravolte. Il risultato è la riproduzione della densità abitativa orientale – credo nelle percentuali di Hong Kong – in scala 1:1. Mentre parliamo sembra di essere in una partita di Tetris, bisogna incastrarsi tra i turni che finiscono e quelli che cominciano, chiudere e aprire la grossa Bibbia fatta in casa della lingua inglese e i raccoglitori delle imprese del piccolo Kim musicista a Berlino, con la Filarmonica. Mister Kim si muove con la capacità penetrativa che ho visto avere solo a Messi nelle difese: accelera e si ferma senza urtare nulla, aprendo e chiudendo porte, tenendo e posando libri e ricordi, mentre sua moglie fa Xavi o Iniesta – scegliete voi – e serve roba come se fossero palloni, che poi lui porta a noi. È tutto così veloce e surreale, il contesto, la gente che vedo arrivare e quella che vedo uscire, che sembra di essere in mano a Lewis Carroll, quando spunta anche il coniglio bianco stropiccio gli occhi e cerco il trucco, fuori la città è luminosissima, mi sporgo per  cercare il grande cantiere della Hyundai, e quando lo vedo, mi rassicuro. Mister Kim continua a raccontare nel suo inglese assurdo di Berlino e dell’Europa, di concerti e teatri, è un dj che serve storie di suo figlio, martella, martella fino a quando mi diventa insopportabile. Guardo i pianisti nei loculi, penso che come i neri nelle chiese forse da questa casa uscirà un nuovo genere, e quest’uomo che mi è apparso in mille modi verrà ricordato come uno capace di regalare per pochi soldi un sogno a chiunque. Avrei voglia di aprire le porte dei loculi e sentire cosa suonano se ripetono o se innovano, ma la loro serietà, la totale dedizione ai pianoforti e le rigide regole coreane me lo impediscono. Li lascio nella loro condizione nichilista.

Foto di Maria Vittoria Trovato 

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