Gioca, segna e si fa male. Cento partite di Lorenzo Insigne diventano novantanove e mezzo. C’era Walter Mazzarri, in panchina, che lo mandò in campo cinque anni fa, prima, invece, c’erano solo voci, che si inseguivano sovrapponendosi e coagulandosi in speranza, perché da troppo tempo il Napoli non aveva un napoletano capace di farsi campione, guida, e di coniugare al presente e al futuro il verbo giocare. Tutti guardavano in fondo alle strade di Napoli, aspettando un calciatore capace di mettersi in scia, uno che sapesse tirare le punizioni e far tremare le mani ad ogni stop, di dribblare e segnare con la precisione dell’Imperatore del calcio, ora di stanza a Dubai. Ovvio, siamo lontani, ma almeno Napoli ha trovato uno che ha il talento per mettersi in fila, per farsi provare, e per poter dire: «Yes, I know my way», e poi dopo aver saltato e risaltato Chiellini, Padoin o Bonucci: «I say i’ sto ccà». Lentamente Lorenzo ha preso a trasformare i campi in tavoli da biliardo, ha acquisito certezze e preso coraggio, anche troppo, fino a farsi “spaccone” dopo la cura Zeman che lo aveva trasformato da teppistello dei dribbling in giocatore con ruolo, posizione e pensieri; ma quello che tutti sapevano, è che sarebbe diventato “il prescelto”, fin dai tempi della Primavera, e segnare alla centesima partita un gol alla Juventus è il sogno di ogni ragazzo dal Vomero a Volla, da Mergellina a Scampia, da Posillipo a Frattamaggiore, e giù, giù, per ogni piazza divenuta campo negli occhi dei bambini che misurano i posti in possibilità di gioco, gli spazi in occasioni per esercitarsi col pallone. Cento partite col Napoli e un gol a Buffon, di precisione, dopo averla ricevuta di sponda da Higuain, un gol da pallastrada, una triangolazione che quando ti riesce su un basolato, col pallone che rimbalza male e fai fatica doppia per controllarlo, poi urli di gioia due volte, imitando il tuo calciatore; in questo caso bisognava guardare Reina saltare come uno dei Quartieri Spagnoli per capire il romanzo di Lorenzo Insigne. «E saglie ‘a voglia d’alluccà». Dice una leggera distorsione al ginocchio, sarà partita dal cuore, è quella del tempo quando si realizzano i sogni, quando diventi un caso che in milioni e per anni, forse per sempre, ricorderanno. La sua storia esce dall’obiettività del campo per entrare nel realismo magico napoletano, e ogni suo gesto assume una valenza estetica potentissima e una importanza storica – sì, relativa fuori da Napoli – fondante. E per ogni delusione, occasione mancata, Insigne diventava quella speranza fatta in casa, quell’adda passà ‘a nottata calcistica che faceva dire: «và tu va tant’io sbareo, e aspetto a Insigne». Era una minoranza? Certo, ma è innegabile che ci fosse, e che risentita guardasse al San Paolo quando in molti, troppi, fischiarono i suoi leziosismi, il suo farsi foca, dopo un infortunio terribile, dimenticando in poco, quello che Insigne era e quello che Insigne rappresentava. Oscillava tra il biblico e il metafisico, a volte mostrava la sua parte profetica, altre: quella dell’assenza che riportava tutti a dire: no, non è lui, e a riprende a camminare sotto ‘o muro. E ogni suo gol appariva, invece, come un risarcimento per chi gli era stato fedele, per chi aveva visto il Lazzaro felice. Poi, la sua immagine eccentrica, che cambiava attraverso il linguaggio dei suoi capelli, a lungo preponderante, ha preso a lasciare spazio alle giocate di fino, ai passaggi di lusso, e infine ai gol. Ma continuava ad essere un talento con riserva, almeno fino alle partite di quest’anno che hanno mostrato una consapevolezza enorme e una capacità di esecuzione – proprio come il gol a Buffon testimonia – che non possono più essere ignorate. «Allerìa, pe’ ‘nu mumento te vuò scurdà». Un sano distacco da qualsiasi dubbio.
[uscito su IL MATTINO]