Hugh Glass era un incrocio tra Ambrogio Fogar e Walter Bonatti ma con il fucile, la biografia incerta come tutti quelli che si muovono su una frontiera – in questo caso: Nord Dakota –, e una vendetta da compiere. Un viaggiatore e cacciatore di pelli sopravvissuto all’attacco di una orsa e all’abbandono lungo il Missouri, che compie 320 km per raggiungere il South Dakota dove c’è Fort Kiowa e gli uomini che l’avevano dato per morto e lasciato da solo al gelo e tra gli indiani Sioux e Pawnee e l’ostile natura, con l’aggiunta National Geographic. Tutti i dettagli – della storia vera – nel libro di Michael Punke Revenant (Einaudi), che è anche la base del nuovo film (stesso titolo) di Alejandro González Iñárritu con Leonardo Di Caprio nella parte di Glass. Questa storia era già diventata un film – prima ancora del libro di Punke – negli anni settanta: Man in the Wilderness, con Richard Harris nella parte del sopravvissuto, e persino John Huston a fare il capitano Henry – la parte leale della storia. Iñárritu ci mette un respiro più lungo, un mucchio di dettagli, l’individualismo di Glass (che esalta Di Caprio in una prova da Toro Scatenato) e la reale violenza del contesto (1820-23), completando il suo processo artistico che da Città del Messico lo porta ad essere un vero e proprio regista americano, con linguaggio, frontiera e lieto fine, un John Ford ritrovato, con Di Caprio a fare John Wayne, bordeggiando la morte tre volte, e rinascendo per tre volte (l’ultima materialmente dal ventre di un cavallo, dopo una tempesta di neve). Due volte gli indiani e una volta l’orsa provano a ucciderlo andandoci molto vicino, ma lui deve vivere per vendicare la morte di suo figlio, avvenuta per mano di Fitzgerald – l’uomo che poi lo abbandona in fin di vita –, divenendo una specie di Montecristo tra le montagne innevate sopra al Missouri. La sua collera furibonda lo porta a sopravvivere e a cercare vendetta – nella realtà fu molto più buono che nel film –. Leonardo Di Caprio striscia e mangia bacche, sanguina e si ricuce come e più di John Rambo, sopravvive alle tempeste di neve, alle rapide e alle cadute nei burroni. Ha visioni come quelle del Gladiatore, ma i suoi campi elisi non hanno campi di grano ma boschi. E più cade più trova forza per rialzarsi, portandosi addosso la pelle dell’orsa che l’ha quasi ucciso. C’è una solennità religiosa nella natura ripresa e raccontata, dove ogni azione degli uomini sembra infima, inutile, tanto più violenta – sottolineata dalla musica di Ryuichi Sakamoto. Iñárritu rinuncia alle connessioni borgesiane in funzione di una orizzontalità degli eventi e del racconto, perde in stupore e guadagna in epica, lavora in un mondo conosciuto – quello della frontiera – aggiungendoci l’atrocità che era mancata nei racconti precedenti – un po’ per scarsi mezzi un po’ per i limiti culturali del tempo –. La vita diventa un pezzo di carne trafitta, sanguinante, in attesa di marcire.
Sembra un buon film.Da tenere d’occhio.Mi fido sempre delle recensioni di Valerio Caprar…ops di Marco Ciriello.
🙂