Difficile non è sopravvivere alle guerre, ma cancellarne il ricordo. Il reduce è sempre uno straniero, soprattutto rispetto al suo passato. Che sia guerra o dolore quotidiano, è solo una questione di campi larghi, quello che rimane è la ferita. A leggere “Sunset Park” (Einaudi, Premio Napoli 2011), di Paul Auster si capisce che lo scrittore è interessato agli uomini che hanno quella ferita, e che sono finiti di fronte a un baratro, reduci senza guerre. Se sei di fronte a un baratro hai sbagliato qualcosa che ti sta alle spalle, se finisci in un mondo che non ti appartiene hai di sicuro un viaggio e una storia da raccontare. Questo nel passato americano, nel presente reale e nella fiction di Auster: è la crisi economica che ha messo una generazione di fronte al baratro e gli ha anche consigliato di saltare, e prima di portarcela l’ha ferita, un po’ alla volta impedendole di sperare: i più deboli da soli, i più forti per altre mani, alla fine quello che rimane è l’assenza di fiducia. Tanto che la rabbia del romanzo e quella degli indignados di Zuccotti Park, potrebbe essere la stessa, e lo chiediamo all’autore, chi dei suoi quattro personaggi (Miles Heller, Bing Nathan, Alice Bergstrom, Ellen Bryce), quattro voci potrebbe essere tra i manifestanti: «La risposta più ovvia sarebbe Bing Nathan, ma non sono così sicuro che alla fin fine Bing parteciperebbe davvero ad un movimento collettivo di quella portata. Potrei sbagliarmi naturalmente, perché Bing è un giovane che riserva molte sorprese. Paradossalmente, credo che la fragile Ellen Bryce, la meno affabile e disponibile di tutta la gente che vive assieme nella casa di Sunset Park, sia, infine, la più curiosa. Non ho dubbi che Ellen ci avrebbe fatto un giro, almeno per qualche giorno». Sì, però, Miles Heller, il protagonista di Sunset Park, ha rinunciato al futuro: il suo è un eterno quotidiano che gira a vuoto in un continuo, vorticoso paradosso di relazioni con altri come lui, potrebbe incrociare quello di chi occupa Wall Street. Dov’è finito il sogno americano? E’ cosciente del fatto che lei sembra mettere in discussione l’intero sistema paese scrivendo di “vite squarciate dal troppo e dal troppo poco di questo mondo”? «Il fatto è che, attualmente, le cose non stanno andando bene in America. La disoccupazione è alta, salari e stipendi stanno crollando, sempre più persone lottano per andare avanti. Il comune sentire, condiviso da milioni di persone, è che il paese stia, in qualche modo, regredendo. Con la costante crescita della forza della destra, che sembra aver voltato le spalle a qualsiasi tipo di ricerca di una soluzione ai problemi che ci troviamo ad affrontare, la stessa discussione fa avanti e indietro tra media e piazze e la sento irrazionale e fuori luogo. Le cose possono migliorare, ma costerebbe uno sforzo enorme dall’intero paese per cambiare quasi tutto il modo in cui viviamo». Le grandi depressioni delle civiltà hanno sempre generato risposte sia a livello visivo che a livello narrativo, da Steinbeck a Dos Passos, lo stesso Kerouac sta sul quel confine, ma dalla crisi sostenibile che stiamo attraversando oggi è davvero possibile staccarsi, astrarsi, almeno in letteratura, e farne riflessione, storia, personaggi? Lei pensa d’esserci riuscito? «La letteratura e l’arte non possono risolvere i problemi che esistono nel mondo reale. L’arte non è distaccata dal mondo: ci restituisce il mondo in modi che permettono a noi di contemplarlo, di rifletterci su. Far esperienza di buona arte ci rende più umani, più vivi, ma non può davvero insegnarci a vivere». Da quel che scrive, sembra convinto che si cresca solo col dolore, perché le ferite “sono una parte essenziale della vita, senza le quali non puoi diventare uomo”, eppure l’immagine di lei è di un uomo felice realizzato con una moglie felice, e una figlia felice, in una casa felice, insomma fareste invidia a Tolstoj. «Tutti soffrono, mi creda. Qualcuno molto più di altri, ma nessun essere umano può mai rifuggire dal dolore». In questi ultimi tempi sembra l’intera America sofferente. Tanto da non avere la forza di scommettere, giocare, rilanciare. “Il baseball – dice Oliver Stone – è come l’America vorrebbe essere, il football è come l’America è”. Lei riserva al primo sempre un ruolo salvifico e del secondo non parla mai, come mai? «Un altro modo di vederla è questo: il baseball assomiglia alla vita, il football alla guerra. Io sono più interessato a studiare la vita piuttosto che la guerra, e in più il baseball è un gioco molto più interessante del football». Di sicuro è così, ma è evidente che l’America continua a essere come il football, e non c’è nemmeno un allenatore come Al Pacino che gli faccia il discorso di “Ogni maledetta domenica”, compito che spetterebbe a Barack Obama. Ma su questo Paul Auster ha detto passo, confermando l’impressione che gli scrittori americani siano sempre più sociologi: guardano la realtà ma ne restano fuori, anche quando – come nel suo caso – trovano il tempo giusto e la storia. E noi rimpiangiamo Hemingway che si buttava a capo fitto nella realtà, e Vonnegut che sapeva renderla surreale. È difficile credere a chi dice di scrivere per sopravvivere e non risponde alla domanda di Kurt Cobain: ma voi vi divertite ancora?
[uscito su IL MATTINO, ottobre 2011]
[…] circolarità in queste tre storie che si svolgono intorno al Cardarelli che potrei dire figlia di Paul Auster (giocando sull’asse Na-Ny, oltre che sul parallelo), perché il libro di Elizabeth Strout si […]