Sousa: navigante di campi

Quando gli danno del reincarnato, o del profeta in seconda, Paulo Sousa, risponde sempre allo stesso modo, scartando l’ombra lunga di José Mourinho con una smorfia e poi dicendo: «lui ha vinto tanto, io devo ancora cominciare». Intanto ha preso a vagare, le sue panchine sembrano incarichi da console: Inghilterra, Galles, Ungheria, Israele, Svizzera, e ora Italia. «Non mi sono fatto problemi ad allenare in campionati meno conosciuti. Penso che per un allenatore sia importante vincere, perché legittima il suo metodo e il suo approccio, e il successo crea un’atmosfera positiva». Il viaggio è il centro della vita di Sousa e non perché è un portoghese, ma perché è uno che vive in movimento – che poi è la chiave anche del calcio che fa praticare –; un navigante che cambia di continuo, basta guardare le foto delle varie panchine passate, sta in scia a Fregoli e Brachetti: dal look alle lingue, e ad ogni trasloco è capace di uscirne migliore. Le sue esperienze sono brevi, è uno che si ferma poco, sembra convinto che il calcio si apprenda muovendosi, provando a prendere e lasciare il meglio. Non è facile. Proprio questo moto perpetuo gli ha fatto commettere l’errore di lasciare lo Swansea per il Leicester: «Dopo che le cose non erano andate bene con il Leicester mi presi una pausa. Ho guardato partite, studiato tattiche e stili di gioco e continuato la mia formazione da allenatore. Penso che quello stop mi abbia aiutato molto. Ho imparato molto in Championship. C’erano alcune cose in cui non ero preparato, ma l’esperienza la fai sul campo, non solo guardando o ascoltando». È un uomo deciso, si è visto anche nelle polemiche italiane: arbitri e potere, presidenza della squadra e mercato, tifo e città, e portiere, non in questo ordine. Con il portiere Luigi Sepe, piuttosto distratto quando Sousa spiegava i moduli contando anche il portiere («1-4-3-3» e/o «1-4-5-1»): un po’ per vezzo, un po’ per ribadire che ne pretende la partecipazione al gioco; distrazione costata cara al napoletano reo di una insubordinazione sui social, la prima linea da fronteggiare, ormai lo sanno tutti, calciatori e non, è Facebook-Twitter-Instagram, come sa bene il maggior teorico del governo-social: Matteo Renzi, non a caso tifoso viola. Il ricordo di Sousa calciatore, era legato alla Juventus – e infatti a Firenze l’hanno smaltito solo quando ha cominciato a vincere e macinare punti –, che poi non aveva lasciato benissimo, dirà: «sono stato spremuto e buttato via»,  come si è visto anche l’altra sera nel freddissimo scambio televisivo con Alex Del Piero; allora aveva i capelli lunghi, neri e gelatinati, l’eleganza era tutta nei piedi, invece, quando è arrivato alla Fiorentina, è saltato agli occhi di tutti che dai piedi, l’eleganza, era migrata alla testa (e non per un taglio sobrio), ora sembra essere avvolto da una aurea di bon ton, poi confermata in ogni singolo gesto e in ogni parola. Marcello Lippi che fu il suo allenatore alla Juve, vedendo giocare la Fiorentina (che è stata anche in testa al campionato, meritatamente), disse: «quando era un calciatore, parlavamo spesso di come aggredire il centrocampo avversario e Paulo ha tenuto conto di queste cose, la sua squadra è aggressiva e ha idee di gioco». Sousa si è saputo costruire, ha studiato più che da Mourinho da Carlos Queiroz (di cui è stato assistente sulla panchina della nazionale portoghese), da Sven Goran Eriksson, e da Ottmar Hitzfeld. E il suo continuo partire è tutto cucito sul rovescio: voleva fare il professore di matematica ed è finito ad insegnare il pallone, era tifoso dello Sporting Lisbona ma l’esordio da calciatore avvenne col Benfica, opera proprio di Eriksson, finendo poi per vincere due Champions League di seguito (Juve e Borussia Dortmund). La matematica gli è rimasta dentro ed è tornata utile nelle applicazioni dei test, nelle statistiche, come nell’inseguire i calciatori, proprio come insegnano i limiti in matematica: è tendendo a – Nikola Kalinic e Matias Vecino,  in questo caso –, che li conosce prima di ritrovarseli in squadra. È un secchione. Meticoloso nelle analisi, nelle scelte e nell’approccio alle partite. Le sue squadre sono tatticamente affascinanti, proprio perché dietro c’è tanta ricerca. Il rischio è di rimanere laboratorio, e lui – spesso – appare incontentabile. L’abitudine alla vittoria, invece, gli permette di parlare di scudetto senza la prudenza di Sarri e Allegri, che poi il titolo sia lontano, non gli importa, quello che conta è essere in corsa, avvicinarsi. In questo c’è tanto Mourinho, in ogni squadra che ha allenato ha portato la formula (torna la matematica) di derivazione mourinhesca: «Ambizione + coraggio + intelligenza + velocità di pensiero», che, a guardare le ultime partite, sembra il ritratto di Federico Bernardeschi più che della Fiorentina. Quello che invece fin dall’inizio ha fatto sua la formula, perché è il comune denominatore di ogni azione, è Borja Valero. Il comandamento è schivare i rischi, muovendosi in maniera intelligente, ogni movimento è estremamente organizzato, la sua manovra parte bassa e poi avvita e/o accelera modulandosi sull’avversario. In poco, si è ritagliato un ruolo paradigmatico nel campionato italiano: senza nemmeno aver disfatto le valigie.

 

[le dichiarazioni sono tratte da Público, Maisfutebol, The Guardian]

[uscito su IL MATTINO]

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