Quel giovedì di giugno il termometro diceva quarantaquattro gradi, e lo studio del grande architetto non aveva l’aria condizionata: per esplicito tirannico comandamento del maestro, che sembrava immune al caldo. Mentre io e i due operatori ne eravamo schiacciati, sopraffatti, risucchiati. Annaffiavamo i nostri corpi con coca-cola che diveniva inarrestabile sudore, catapultandoci in un rapido processo di imminchionimento che sanciva la schiacciante vittoria del vecchio architetto su di noi. Continua a leggere