In un percorso da scavo archeologico, l’Italia ha scelto prima l’erede e poi il patriarca, prima il ragazzo che aveva capitalizzato e poi il vecchio che invece ancora sperpera. Dalla seriosità di Antonio Conte si passa alla libidine di Giampiero Ventura: «Sono stato il primo a giocare con il 4-2-4, a Pisa e Conte è stato onesto ad ammettere che si era ispirato a me». I due per la seconda volta si avvicendano. Conte lasciò i baresi convinto che quella squadra non potesse fare molto, Ventura arrivò decimo, l’Everest della storia del Bari. La città della rinascita, certo in Puglia aveva ottenuto con il Lecce il doppio salto dalla C alla A ma a Bari è nata la storia della «palla che frulla», del calcio come «libidine», del «se vuoi, puoi», in pratica a Bari Ventura trova se stesso, e va oltre le preoccupazioni e i tormenti, si mette in salvo dall’arrivismo. È a Bari che si risposa, sessantottenne con una ragazza, Luciana Lacriola, e prima di arrivare all’altare, il suo testimone di nozze, Urbano Cairo, gli comunica che è fatta, non sposa solo Luciana ma anche la Nazionale, Tavecchio gli aveva appena detto della scelta. Ventura è un allenatore che oscilla tra Fabrizio De André – si porta dietro la periferia di Genova, Cornigliano, con le ciminiere Italsider a fare da scena fissa: «Non ero né ricco né povero, né di qua né di là. Ma nulla mi ha mai parlato così forte come il silenzio di quella gente che entrava in fabbrica con la gavetta in mano» –; Nietzsche quando diventa dinamite e destino per molti ragazzi: Darmian, Ogbonna, Immobile, Bonucci, Ranocchia, Glik, e Alessio Cerci – era al suo matrimonio con Chiambretti – che si porta dietro dal Pisa; e Jerry Calà che è la libidine del gioco, la ricerca del divertimento, e anche l’involucro di leggerezza che tiene insieme il complesso animo venturiano; che alterna una espressività aggressiva, una capacità da sindacalista Fiom a quella da padre che ti legge le favole, o da ingegnere che ti spiega il funzionamento di una macchina, proprio come il suo calcio varia tra estremità: da un contropiede col il lancio a mezza luna che taglia in velocità senza indugi, alla dolcezza dei numerosi veli che chiede agli attaccanti, quasi che il gol fosse dovuto al godere del ritardo, ricerca prima del tiro. Nell’Italia della rottamazione renziana, Ventura rappresenta il vecchio proletario del calcio che ne va viste tante, e non ha mai avuto una grande squadra – escluso il Napoli, il primo post-fallimento, che De Laurentiis gli affida e poi gli toglie in corsa, che poi era una squadra stropicciata dagli eventi, e rammendata a gennaio, fece il lavoro sporco di cui poi si servì Reja – anche se andò vicino alla Juventus di Marcello Lippi (che sarà con lui in Nazionale, era con lui nella Sampdoria da calciatore) poi scelsero Ancelotti. La squadra modello è il Barcellona di Cruyff: «Una squadra con un filo conduttore: essere, e sapere». Ventura è sempre stato uno che se l’è presa comoda, riflessivo, senza ansie, capace di cambiare idea, di sperimentare: «Non parlo mai di schemi, ma sempre di proposte», e passare: «trasmissione di conoscenza». Una ernia del disco lo toglie dal campo e lo siede sulla panchina delle giovanili della Sampdoria. La sua tesi a Coverciano è sul possesso di palla nel 3-4-3 (così giocava a Venezia). In A ci arriva col Cagliari, dove si vanta di aver perso i capelli per le liti con Cellino, ma di aver anticipato Obama declinando il verbo “Can” prima di lui. A Pisa sceglie il 4-2-4, il modulo della Grande Ungheria, del Brasile di Vicente Feola – che vinse in Svezia –, e del São Paulo di Bela Guttman. Sarà per la costante portoghese che pure André Villas-Boas studiava Ventura. A Torino userà il 3-5-2 e il suo capolavoro è la vittoria al San Mamés contro l’Athletic Bilbao. Non è un profeta, ma un insegnante passato dalle scuole (superiori) agli spogliatoi, molto sveglio, una specie di Alice nel paese delle meraviglie del calcioscommesse, con Masiello nella parte della regina di cuori. Ventura è il capitano di navi cargo che approda alla nave da crociera, il ragazzo che si forma cadendo, l’Harvey Cheyne del suo amato Kipling: “Grano in spiga, andiamo in alto mare”.
[uscito su IL MATTINO]
[…] per lui lo salterebbe, e spesso lo salta riducendolo ai minimi termini. Ma il paradosso è che Ventura è il più provinciale ed operaio degli allenatori della Nazionale, quello lontano dal potere e dai […]