Sandro Ciotti ha disegnato partite nei nostri pensieri, ancora oggi, a noi cresciuti con la sua voce, ci capita di sentirlo gracchiare su Cruyff, o strologare sul festival di Sanremo, con le sue angolatissime camicie. Era elegante senza prevaricare, ironico senza boria, aveva giocato a calcio – e bene – e quindi dosava gli aggettivi nei giudizi degli altri calciatori, oggi tutti hanno un “pippa” per l’attaccante che sbaglia, Ciotti non l’ha mai usata una parola così, né gli ho mai sentito usare altre parole con disprezzo. Quando morì Gaetano Scirea, e lui, in diretta alla “Domenica Sportiva”, diede la notizia e fu costretto a fare un ritratto veloce del campione, usò il verbo illustrare: «Scirea si è illustrato da solo su tanti campi del mondo». Ciotti – narratore orale – aveva una naturale elaborazione e restituzione della realtà che sembrava uscirgli in endecasillabi, per quanto era precisa e scandita in ritmo, una grammatica interiore che teneva insieme tono e parole, respiro e fatti, di stampo leopardiano. Non travalicava mai, nei suoi racconti c’era una attenzione carveriana che gli permetteva di non andare mai oltre, non è mai stato barocco, era perfetto. Una sera a Johannesburg, durante il mondiale di calcio del 2010, Vittorio Zucconi mi raccontò una storia che spiegava tutto di Sandro Ciotti. Città del Mexico, 1970, finale di Coppa del Mondo all’Azteca, Ciotti esce dall’albergo e prende un taxi, ma il suo tassista dice di non sapere dove sia lo stadio – forse l’unico in tutta la città o forse un grande attore –, gira e rigira, al terzo passaggio per la stessa strada, Ciotti, senza perdere la pazienza, ma guardando nervoso l’orologio, bussa sulla spalla del tassista e gli dice: «Ahò, questo è er terzo giro, mò però se fermamo e preguntamo».