Una fortuna per entrambi: due icone, due entità quasi sovrannaturali, due uomini estremi che si riconoscevano e usavano, salvandosi. Insieme si rimettevano a cercare la gratitudine pubblica con un azzardo sentimentale da padre e figlio. Diego Maradona nel 2000 era sfinito dalla droga, aveva chiuso col calcio, bordeggiato la morte e visto el barba; Fidel Castro aveva bisogno di un testimonial per la sua rivoluzione sempre più stanca; unirono necessità, desideri e orizzonti: ne venne fuori un romanzo pop. Il vecchio comandante accantonò il baseball, la boxe e il basket – in molti lo ricorderanno cercare il canestro con Giangiacomo Feltrinelli – per il calcio e Maradona di cui si era accorto nel mondiale messicano del 1986; il calciatore prese coscienza dell’ingiustizia del mondo, si convertì alla rivoluzione e cominciò a portargli maglie e chiedere consigli, arrivando a tatuarsi il faccione barbudo del leader cubano sul polpaccio sinistro. E oggi scrive sui social del suo dolore: “per la perdita di un amico, di un confidente, che mi chiamava in qualsiasi ora per parlare indifferentemente di calcio, baseball o politica, che mi aveva spiegato come Bush sarebbe stato peggio di Clinton, un uomo che non si sbagliava mai, che sarà eterno perché grande e unico. Il mondo perde il più saggio di tutti”. Uno aveva sfidato e tenuto testa agli Usa e l’altro agli inglesi, entrambi con classe e astuzia avevano umiliato chi era più grosso di loro e meglio organizzato. Castro vide in Maradona questa ingenuità che vive oggi nelle sue parole, e ne comprese la disperazione e il bisogno di avere certezze: più di vita che politiche, anche se poi di queste ultime si servì. Fidel capì con molto istinto da padre prima e politico poi, e fece intendere al mondo: quello che il capitalismo e l’occidente traviano con la droga, un grande campione di sport, il mio socialismo con le pezze e l’orgoglio cura, restituendolo al sogno. Uno spot enorme per la sanità cubana, uno schiaffo agli Stati Uniti e all’Europa che non volevano il peso di Maradona, la sua parte sporca e la sua commedia stanca. Una nuova biografia per il calciatore. Diego aveva bisogno di una guida intellettuale e soprattutto di qualcuno che avesse compiuto una impresa pari alla sua per sentirsi dire quello che doveva fare, per accettare l’errore della droga, il resto lo fece Cuba, dove anche Marco Pantani cercò rifugio e inutilmente di parlare con Diego, che viveva blindato e con molti occhi intorno che all’occorrenza si chiudevano davanti ai suoi improvvisi bisogni di tornare al passato, ma che non videro il ciclista italiano, purtroppo. Prima solo poi con la famiglia, Maradona trovò la sua terza patria – dopo Buenos Aires e Napoli –, l’isola divenne una possibilità di redenzione e ripartenza, oltre che una enorme mano per Castro che stava imboccando l’uscita di sicurezza, un processo cominciato con la visita di Giovanni Paolo II nel 1998. Fidel Castro ha sempre sentito il bisogno di conoscere gli altri rivoluzionari, di poterli affascinare e farsi raccontare da loro quello che provavano: leggeva i romanzi di Gabriel García Márquez e gliene chiedeva conto, e allo stesso modo prese a domandare a Maradona delle punizioni e dei rigori, delle partite e dei campionati, una curiosità bambina: la stessa di tutti quelli che han visto giocare Diego e fare cose fuori dal tempo e dalla logica calcistica. Nel 2005 un emozionato Maradona – quasi più dello scrittore argentino Osvaldo Soriano, anni prima – intervista il comandante, così lo chiama, per il suo programma televisivo “La Noche del 10”, pagando il conto e amplificando il messaggio rivoluzionario. E
Castro gli ricorda – come un nonno – che ha visto crescere le sue figlie, e guarire Diego, che ora ha incontrato il resto della famiglia con i fidanzati delle ragazze, tanto che più della tivù argentina sembra di essere nella casa sudamericana di una telenovela. Maradona ha la capacità di tirar fuori un Castro anomalo, familiare, che salta dai nipotini all’unione che manca al continente latinoamericano. Riesce a farlo ridere chiedendogli degli attentati subiti, rompendo quella algidità che l’uomo si porta dietro dalla Sierra, spogliandolo dalla sua figura asettica e lontana dalla quotidianità. I loro dialoghi diventano subito realismo magico, dove si incontrano due uomini che parlano di sé in terza persona e dividono il mondo per le proprie imprese e giudizi, vita e idee, tanto che persino l’Operacion Milagro, che allacciava Cuba al Venezuela di Chávez, sembra una trovata da romanzo, nei loro discorsi. Il comandante gli racconta la sua vita e quella del Che Guevara come e più che a Gianni Minà, dimostrando di sentirlo parte del suo mondo, e Maradona lo vede come una tappa inevitabile della sua nuova vita, alla ricerca di una potenza morale che è mancata a quella precedente. Per lui fa il canestro, e non la solita foca col pallone, cedendo al basket e a un tiro libero del comandante. È una scena tenera, perché guardando fuori dal tempo si può vedere il bimbo Fidel Castro, operazione che poteva riuscire solo a Diego Maradona. La loro è la complicità di chi si riconosce e protegge dai morsi della moderazione, dalla solitudine del vertice, dalla strana angoscia di non riuscire a ripetersi fuori dalla propria giovinezza, dall’essere divenuti i sogni infranti del resto dell’umanità.
[uscito su IL MATTINO]
[…] dorato della sua noia e magari vedere come è messa Caracas. Se in passato le sue passioni per Fidel Castro – che lo usò come spot per la sanità cubana – e per Hugo Chávez, che lo volle a Mar del Plata come testimonial della grande manifestazione […]
[…] cadere tutti da Blatter a Platini fino a Pelé – ma ha anche pochi amici – se ne sono andati Fidel Castro e Hugo Chávez, i suoi genitori e un mucchio di uomini e donne, e non parla più nemmeno con Jorge […]