«Napoleone è stato un grand’uomo soltanto per il fatto di aver ordinato di fucilare un editore». Mi è venuto in mente in un bar di Montevideo quando uno di loro mi confessò di aver fatto stampare diverse edizioni pirata del mio libro Mai più pene né oblio. Me lo disse sul far dell’alba, dopo che avevamo bevuto diversi bicchieri, di fronte a un vecchio libraio e a due scrittori amici. Gli unici sorpresi dalla sua audacia furono gli scrittori, che lo credevano una persona rispettabile. È stato in quel momento che ho pensato a Napoleone e al muro della fucilazione. «Chiamiamo una guardia», disse uno dei miei amici e tutti abbiamo riso perché erano passati otto anni e quel tale mi offriva la sua amicizia e la chiave del suo appartamento nel caso che ci volessi trascorrere qualche giorno di vacanza. Ci aveva invitati a cena in un posto alla moda e ci aveva parlato di uno zio anarchico che lo aveva ospitato durante l’esilio. Poiché parlava molto, aggiunse qualcosa che già sapevamo: per lui era la stessa cosa vendere libri o patate, si trattava soltanto di una questione di marketing. Tornato a Buenos Aires, trovo una copia di Le Nuvel Observateur in cui viene pubblicata un’anticipazione dal libro della corrispondenza inedita tra Louis-Ferdinand Céline e il suo editore, Gaston Gallimard. Céline, che non era un tipo facile, lo definisce «pagliaccesco commerciante distrutto dal whisky e dal sesso», e qualifica il gruppo di scrittori del comitato editoriale come «stupida banda di asini pretenziosi (…) manica di imbecilli, tarati mentali e ciarlatani. A quanto pare, il creatore della Pléiade si offese, e in un’altra lettera Céline ironizza: Non la sto attaccando, cazzo, non la sto criticando; se volessi farlo, lei morirebbe di confusione». L’orgoglio di Gallimard, che non pensò mai di vendere patate, era troppo grande perché si lasciasse intimidire: «Non riesce a farmi credere alla sua violenza (…) Lei vuole che i suoi libri di vendano; ebbene, mi dia della merce facile! Faccia il pagliaccio come i bravi venditori: radio, fotografie, interviste, ecc.! così riuscirà ad attrarre l’attenzione sui suoi libri. Le sue diatribe contro l’editore sono inutili!». Durante l’occupazione tedesca, Gallimard, come tutti gli editori di Parigi, si era sottomesso alla censura dei nazisti, ma sfuggì ai giudizi del dopoguerra grazie all’aiuto di Sartre, Simone de Beauvoir, Camus, Malraux e altri scrittori che avevano ottenuto l’approvazione della Resistenza. Tra i collaborazionisti, Pierre Drieu la Rochelle, direttore della La Nouvelle Revue Française (la celebre NRF, proprietà Gallimard), si suicidò; Robert Brasillach fu giustiziato e Céline pagò con il carcere e l’esilio. Gallimard, il mondano, il creatore delle migliori collane di libri d’Europa, lasciava le discussioni di affari al fratello Claude e i due formavano un tandem imbattibile, capace di resistere a tutte le crisi economiche, ai cataclismi sociali e perfino alle trovate dell’impetuoso Simenon, che si offrì di scrivere un romanzo in strada, sotto lo sguardo dei passanti, rinchiuso in una scatola di vetro. I miei editori di allora erano anche loro due fratelli, e per di più gemelli. Non ho mai conosciuto farabutti più gentili: finché i miei libri erano ai primi posti della lista dei best-seller, non lasciavano passare settimana senza farmi avere a casa due biglietti di tribuna per veder giocare il San Lorenzo. Ciò mi commuoveva abbastanza per indurmi a non parlare con loro dei miei diritti d’autore, ma loro prestavano attenzione a ogni cosa. Prendermi il fastidio di spostarmi fino a Tandil per andare a trovare mia madre? No! Bastava che io scegliessi il giorno e la mandavano a prendere. Una mia parola e mamma, come miss Daisy nel film, arrivava alla Fiera del libro o a casa, accompagnata da un autista silenzioso. Io li ricordavo con affetto ed ero solito dire che tra tutti gli editori che avevo conosciuto loro erano i miei preferiti. Sapevo che non mi liquidavano il dovuto, ma nessun editore lo fa se può evitarlo. Anzi, ce n’è stato uno, in Francia, che mi ha fatto pagare cinque copie del mio stesso libro e un altro, a Buenos Aires, che mi ha fatturato una copia di John Le Carré. I gemelli, invece, mi regalavano enciclopedie e tutti i libri del loro catalogo che mi mancavano per rimettere in piedi una biblioteca al ritorno dall’esilio. Avevano un’aria da Chicago anni trenta, con abiti ben tagliati e portafogli rigonfi, e sfoderavano accendini d’oro. Uno, il più loquace, mi promise che se un giorno avessero dovuto darsi alla fuga avrebbero stracciato i miei contratti per impedire che un estraneo se ne appropriasse. Se non li nomino è perché non ho mai sentito di un editore finito in galera. Invece Sade, Rousseau, Dostoevskij, Verlaine e Knut Hamsun sono stati in prigione. Un giorno, quello meno loquace mi telefonò con la voce rotta per informarmi che avevano scoperto un maledetto pirata che stava inondando le librerie con i titoli miei, identici a quelli che pubblicava la loro casa editrice. Ci siamo incontrati e mi ha mostrato una copia così uguale all’originale da suscitare ammirazione. Da quel momento in poi, mi dissero, i librai avrebbero venduto le copie false e i miei diritti d’autore sarebbero diminuiti alla stessa velocità a cui si muoveva l’astuto pirata. – Se lo acchiappo, te lo porto lì per lì, – mi disse il gemello e mi diede una pacca sulla spalla. Sette anni dopo, nell’ottobre 1991, quando finalmente è comparso sulla mia strada, il pirata aveva diverse carte di credito, un’automobile importante e mi offriva la chiave di casa sua. Devo ammettere che aveva appena offerto una buona cena e che dopo tutto aveva lavorato soltanto su incarico dei gemelli di Buenos Aires. «Ne hai stampate molte copie?» Gli ho domandato. «Un sacco». Mi ha risposto e si è stretto nelle spalle, come uno che archivia una storia passata e sorpassata. Sapeva che non ero armato e che all’alba di solito sono di buonumore. Ci siamo messi a ridere. Già Goethe diceva che gli editori sono figli del diavolo, e Balzac, in una lettera alla duchessa d’Abrantès: «Quell’ignobile boia chiamato Mame, che ha sangue e segni sulla faccia e che può sommare, alle lacrime di quella che ha rovinato, le afflizioni di un uomo povero e lavoratore. Non mi potrà rovinare, visto che non possiedo nulla; ha cercato di infangarmi, mi ha tormentato. Se non vengo a casa vostra, è per non incontrarvi quella carne da galera». L’editore che Napoleone fece fucilare era tedesco e si chiamava Johann Philipp Palm. Il tribunale lo trovò colpevole di essere autore, stampatore e distributore di scritti nefasti contro Sua Maestà l’Imperatore e Re e il suo esercito. L’episodio è citato da Siegfried Unseld, direttore della Suhrkamp Verlag di Francoforte, nell’eccellente saggio L’autore e il suo editore. Con il tempo, i commercianti di libri hanno migliorato un po’ la propria immagine, ma la corrispondenza di Céline con Gallimard rivela l’invincibile diffidenza che hanno saputo seminare tra gli scrittori. I tedeschi che hanno reso la vita difficile a Goethe e a Kafka si indignano se un libro non vende immediatamente e hanno l’abitudine di scrivere lettere fredde come un bollettino medico. Ai francesi pesa che Gallimard abbia respinto Alla ricerca del tempo perduto, di Marcel Proust, e adesso leggono tutti i manoscritti che ricevono. Alcuni spagnoli prestano più attenzione agli scrittori esordienti da quando Carlos Barral si fece sfuggire Cent’anni di solitudine. Gli italiani sono di un’estrema gentilezza ma molto restii a mostrare il portafoglio. Una leggenda narra che il cileno Ariel Dorfman, stanco dei rinvii al pagamento del suo compenso, si sia presentato a un funzionario amministrativo di Milano con una pistola e soltanto così abbia potuto intascare il denaro che gli spettava. Ne ho conosciuto uno che ha speso una piccola fortuna per farmi conoscere Firenze e le trattorie in cui mangiava Vasco Pratolini e a mezzanotte mi ha spiegato che era rovinato e non poteva pagarmi in altro modo. Ma il più ingegnoso è stato il funzionario di una casa editrice di grande rinomanza. L’avevo avvisato che mi sarei fermato a Torino per visitare l’albergo in cui si è suicidato Pavese e che, visto che mi trovavo lì, sarei passato a incassare. Mi ha accolto amabile, compunto, quasi in lacrime, con il riepilogo delle mie competenze da liquidare sulla scrivania. Abbiamo parlato di amici comuni e mi ha incaricato di salutargli Giovanni Arpino, che abitava a due passi. Poi ha preso il riepilogo e mi ha fatto il gesto di un treno che parte. – Mi dispiace dottore, – ha sussurrato, – ma il suo assegno è già partito. Io dovevo pagare l’albergo e avevo perfino pensato di andare alla stazione in taxi, ma ho sentito immediatamente quell’illusione sfumare come il treno che aveva evocato sulla scrivania. – È già partito, – mi chiarì, imperturbabile. – Lo hanno spedito all’amministrazione di Milano e ha proseguito per la filiale di Roma. Domani tornerà indietro. – Ma io vado via da Torino questa sera … – domani torna indietro via telex. Se lei va a Roma, lo perderà di nuovo. Sono rimasto, ma il giorno dopo l’assegno si era trasformato in un giroconto e lo avevano restituito a Milano. Mi hanno pagato molto più tardi, quando Carmen Balcells era ormai la mia agente letteraria e dopo che Dorfman, o la leggenda di Dorfman, era passato dall’Italia con una pistola alla cintura.
[Osvaldo Soriano scrisse questo e altri due pezzi in un impeto di furia contro gli editori nel 1991 su Página/12 poi contenuti in Pirati, fantasmi e dinosauri]