La morte del corsaro nero

Già nel XVIII secolo Goethe aveva scagliato tuoni e fulmini contro gli editori, a quei tempi chiamati «librai»: «Sono tutti figli del diavolo, per loro ci deve essere un inferno speciale». E un altro classico tedesco, Hebbel: «È più facile camminare con Gesù Cristo sulle acque che passare con un editore attraverso la vita». Perfino il grande editore inglese Frederick Warburg si poneva questa domanda, pochi anni fa, nel titolo delle proprie memorie: An Occupation for Gentlemen? Più vicino a noi, Francisco Ayala, premio Cervantes, definisce il suo editore di Buenos Aires direttamente come «ladro». Céline, nelle lettere a Gallimard, non risparmia niente: «Disastroso bottegaio» è la cosa più simpatica che gli dice. E allo scrittore Roger Nimier, sempre a proposito dell’editore: «Sono sempre pronti a ereditare e a derubarci; ci portano via le nostre ore e le nostre vite». Forse c’era del rancore in Céline perché Gallimard non aveva voluto fare niente del manoscritto di Viaggio al termine della notte ed era stato un giovane, Denoël, a pubblicarlo per primo. Anni dopo, per recuperare il libro, l’orgoglioso Gallimard pagò molto di più del suo valore commerciale. Il fatto è che alcuni editori hanno l’occhio poco abituato alla letture. John Kennedy Toole, uno dei più significativi scrittori nordamericani degli anni sessanta, morì giovane e inedito. Furono così tante le case editrici che rifiutarono Una congrega di fissati che nel 1969, a 32 anni, non trovò più senso nella propria esistenza e si suicidò a New Orleans. Soltanto nel 1980 la madre riuscì a far pubblicare il libro dall’Università della Louisiana con l’aiuto dello scrittore Walker Percy. Si può dire che Kennedy Toole si sia ucciso per impazienza, ma ciò non toglie che gli editori abbiano fatto male il loro lavoro: il romanzo vinse il premio Pulitzer nel 1981 ed è stato tradotto in tutte le lingue occidentali. A Roberto Arlt respinsero Il giocattolo rabbioso e doveva scrivere una rubrica in un giornale per campare decorosamente. Horacio Quiroga incassò 3800 pesos tra il 1910 e il 1916. Soltanto 53 al mese, mentre un impiegato di banca ne guadagnava più di duecento. In una lettera a Raúl Larra (riportata in Mundo de escritores), Amorim ricorda: «Florida era la parte in cui gli autori si pagavano da soli la pubblicazione dei loro libri. Boedo era la parte in cui l’editore non chiedeva soldi e none pagava. Era questa la differenza». Eleganti o proletari, già allora l’abitudine era non pagare o pagare. Farli andare avanti e indietro per settimane, a volte per mesi o per anni, per poi mostrare loro un riepilogo con il saldo in bianco. Nel 1933, il Congresso votò una legge sui diritti d’autore che obbligava l’editore a distribuire i libro dopo che erano stati timbrati, numerati o firmati dall’autore, per evitare sospetti. Il testo, entrato in vigore un anno dopo, fu boicottato e respinto dagli editori che presto escogitarono un cavillo giudiziario favorevole alla loro causa. Secondo uno di loro, la firma dell’autore avrebbe potuto «macchiare e insudiciare i libri». Raymond Chandler, nelle Lettere, scrive: «L’editore potrebbe forse trovare qualche giustificazione per sé, ma non le farà mai conoscere le cifre. Non le dirà quanto gli costano i libri, non le dirà a quanto ammontano le spese generali, non le dirà un bel niente. Appena lei cercherà di avviare con lui una conversazione di affari, adotterà l’atteggiamento del gentiluomo e dell’accademico e quando lei vorrà affrontarlo sul piano della sua integrità morale, lui comincerà a parlare di affari». Lo scrittore è costretto a credere a ciò che il suo editore gli dice. Deve accettare la sua sola parola perché non ha mezzi decenti per conoscere la quantità di copie prodotte, vendute, regalate ed esportate. Nessuno gli fa vedere libri contabili né le fatture della stampa né i documenti dell’esportazione, e tanto meno lo invita a visitare i magazzini. Secondo l’editore tedesco Siegfried Unseld, che possiede una lunga esperienza sull’argomento, «le difficoltà che affiorano periodicamente nel rapporto tra autore ed editore sono dovute alla natura particolarissima dell’attività editoriale. L’editore è un Giano bifronte: deve produrre e vendere quella che Brecht chiamava la “sacra merce libro”, deve cioè conciliare lo spirito con gli affari, affinché chi scrive possa vivere e chi pubblica sia in grado di continuare a pubblicare». In uno dei suoi romanzi, Manuel Vázquez Montalbán uccide il proprio editore e affida le indagini al detective Pepe Carvalho. Sublimare quel dolce assassinio è stato una costante della letteratura, e anche del cinema: in Le magnifique, di Philippe de Broca, l’attore Jean-Paul Belmondo interpretava uno scrittore di romanzi d’avventura incalzato e affamato dal proprio editore. Per dare vita ai personaggi più cattivi, il romanziere immaginava sempre la faccia del suo austero e avaro editore francese. Conosco una casa editrice di Buenos Aires che fa sottratto alle competenze dell’autore in un solo anno (il contratto lo consentiva, è vero), 655 copie dello stesso titolo apparentemente «omaggio» per la stampa. Mi parlano di un’altra che ha fatto contribuire i propri autori al pagamento della tassa di registrazione dell’azienda dalla Cámara del Libro. Sono bagatelle per l’autore (lo sono?), vessazioni trascurabili, ma se l’editore fa la stessa cosa con cento titoli avrà guadagnato diverse decine di migliaia di dollari. Quanto basta per passare al nuovo modello di automobile importata. Quando cento autori perdono cento dollari ciascuno, l’editore ne ha guadagnati diecimila. Ogni scrittore conosce quei contratti preparati dalla casa editrice nei quali, in cambio della pubblicazione, l’azienda si prende una buona fetta dei suoi diritti d’autore ceduti «per la durata della sua vita e di quelle degli aventi diritto». Diritti di edizione, di traduzione, per il cinema, per la Tv, per la radio e per ogni altro mezzo di diffusione, compresi «quelli che potranno essere inventati in futuro». Negli archivi dei tribunali vi è una nutrita collezione di questi onesti contratti in attesa di una nuova legislazione. Poiché non è facile pubblicare il primo libro, lo scrittore debuttante di solito è disposto a cedere l’anima al diavolo pur di vedere la propria opera sul banco di una libreria. Presto o tardi rimpiangerà questo peccato di gioventù. Tutti i veterani lo sanno. Per questo la prima attenzione che dovrà avere il giovane nel firmare un contratto sarà quella di limitare nel tempo la validità dell’accordo per quanto vantaggioso possa sembrargli. Questa precauzione permette alle parti, se una di loro è rimasta insoddisfatta, di darsi una stretta di mano e di separarsi quando arriva il momento. William Faulkner, che viveva assillato dai debiti e che dovette lavorare otto anni a Hollywood, aveva un editore irreprensibile: «Mr Robert Haas è vicepresidente di Random House, che pubblica i miei libri, –ricorda in una lettera. – A quei tempi ero al verde e senza risorse, a volte per diversi anni di fila, ma bastava che gli scrivessi perché lui mi mandasse denaro senza la speranza che glielo restituissi, a meno che non avessi scritto un altro libro». Faulkner non chiede spiccioli; nel 1940 scrive a Random House: «I mille dollari mi hanno aiutato ma ho bisogno di altri novemila con cui comprare la mia libertà economica per due anni e dedicarmi a scrivere. Posso accettarne anche cinquemila l’anno (…) e questa sarebbe una sua scommessa sulla mia produzione letteraria di due anni, a patto che non siano due anni di tensione (…) Mi dica se può darmi questo anticipo oppure mi permetta di trovarmi un altro editore». Random House riuscì a trattenerlo, ma i debiti di Faulkner erano grandi come quelli di Scott Fitzgerald. In una lettera del 1942 scrive: «Non posso muovermi. In tasca ho sessanta centesimi, e nient’altro, letteralmente (…) Le sembra che potrei chiedere un anticipo alla casa editrice? In caso affermativo, di quanto? Mi piacerebbe lasciare qualcosa al droghiere prima di andarmene perché è dall’anno scorso che sto firmando dei pagherò». Nel 1949 William Faulkner vinse il premio Nobel e poté saldare i suoi debiti con l’editore. Passò la vita sforzandosi di «raccontare tutta la storia umana in una sola frase», e quasi ci riuscì. Mario Puzo ricorda ne I diari del Padrino che dopo l’insuccesso di Mamma Lucia nessuno voleva riceverlo nella casa editrice e la centralinista non si ricordava nemmeno il suo cognome. Quando Il padrino diventò il tascabile più venduto in tutto il mondo e la segretaria ricordò di nuovo il suo nome per intero, Puzo pubblicò un elenco di editori bugiardi e un articolo in cui affermava che Ralph Daigh, della Fawcett, era una persona competente che «addirittura mi ha pagato tutto quello che ha detto di aver venduto». Il sarcasmo è notevole. Naturalmente, ci sono editori onesti e tutti quanti li conoscono, ma sono scarsi quanto le anime in cielo. Gli altri, i pirati, non c’è Sandokan che possa sconfiggerli. Per questo uno scrittore italiano che ha fatto emozionare diverse generazioni di giovani inviò loro questa lettera, qualche ora prima di suicidarsi nel 1911, a 48 anni:

Ai miei editori. Voi vi siete arricchiti con la mia pelle, avete tenuto me e la mia famiglia continuamente nella miseria e anche peggio di ciò. Vi chiedo solamente che, per compensarmi di quanto vi ho fatto guadagnare, pensiate adesso a pagare il mio funerale. Vi saluto spezzando la penna.

Firmava Emilio Salgari, autore de Il corsaro nero.

 

[Osvaldo Soriano scrisse questo e altri due pezzi in un impeto di furia contro gli editori nel 1991 su Página/12 poi contenuti in Pirati, fantasmi e dinosauri]

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