La cintura di sicurezza ha stretto di nuovo, come a Barcellona, e, questa volta, prima di slacciarla, ha avvisato, Pep Guardiola, l’allenatore del Manchester City, per tutti o quasi: il migliore, anche se lui ha battezzato Antonio Conte con il suo titolo, passandogli la mano con un distacco siddhartiano. Dice cercatemi su un campo di golf, perché presto smetterò di allenare. “Nel momento in cui non sentirò più di aspirare alla perfezione, e in un certo senso sento di aver iniziato questo processo, mi ritirerò. Non ho intenzione di allenare a 60-65 anni” ha dichiarato. “Con il City starò tre anni, forse di più, ma la mia carriera da manager sta per terminare”. A furia di cercare la perfezione nelle proprie partite, uno si stanca. A furia di rappresentare non più il ruolo solitario dell’allenatore, ma anche il modello educativo, quindi l’eroe e il testimonial, lo psicologo con i suoi e con i tifosi, l’analista col team che studia gli avversari, il frontman che risponde agli altri allenatori in più campionati, paesi e lingue, l’intervistato, il filosofo (all’occorrenza), e infine l’uomo con la sua vita privata. Guardiola incarna il nuovo modo di allenare e vivere il calcio, il vero cambiamento antropologico, in pochissimo tempo ha scalato il Barcellona, l’ha asservito alle proprie idee calcistiche e al proprio buonismo post-kennediano applicato ai campi – capace di mascherare anche i propri errori da calciatore, proprio come le scappatelle di John e Bob – e di scrivere la storia. Lasciando all’apice la squadra catalana, prendendosi davvero un anno di congedo dal calcio, andando a pescare in Argentina con Cesar Luis Menotti e leggendo quello che gli diceva Jorge Valdano – presunto nemico del Real Madrid – per poi tornare, vincere e annoiarsi al Bayer Monaco in un campionato moscio e senza riuscire a toccare la Champions League, volando di slancio a Manchester, sponda City, dove la squadra riceve il modulo, vince, a volte prende gol assurdi e piano piano sembra masticare la lingua di Pep, che però già guarda altrove. Iscrivendosi al club degli stressati, presieduto da Arrigo Sacchi che non dormiva prima delle partite e che non solo pensava a quelle da giocare ma anche a quelle giocate, come se si trattasse di scacchi e non di calcio, una sorta di Kasparov del pallone che non si schioda dalla scacchiera mai. Sacchi ora commenta le partite per Mediaset e sembra più sereno, distaccato mai. E persino quelli che son sempre apparsi distaccati, quelli come Marco Van Basten, vengono contagiati dallo stress e piegati da un pizzico di depressione, infatti l’ex attaccante del Milan e dell’Ajax ha lasciato la panchina dell’Az Alkmaar. Il tennista Boris Becker – esperto di alcol e sonniferi, per combattere proprio lo stress – da Twitter consiglia: “Forza Pep, sei solo stressato perché le cose non vanno come vorresti. Ma noi ti amiamo. Beviti una birra e rilassati”. Ma il club degli stressati è nutrito, si va da Guidolin a Luis Enrique che hanno avuto bisogno di riposo, passa dal ct della nazionale russa di pallavolo maschile, oro alle Olimpiadi di Londra, Vladimir Alekno, a Rudy Tomjanovich, il coach degli Houston Rockets dei due titoli negli anni Novanta, che abbandona la panchina dei Los Angeles Lakers, e arriva al ragazzo Nico Rosberg che vince e si ritira dalla Formula 1. «Quando ho vinto la corsa a Suzuka, avevo il titolo nelle mie mani. La pressione era aumentata e ho iniziato a pensare da lì di ritirarmi dal motorsport da campione del mondo. […] sapevo che quella corsa sarebbe potuta essere l’ultima della mia carriera. E prima della gara ho sentito improvvisamente che tutto era chiaro e giusto. Volevo gustarmi dall’interno ogni secondo del fatto che quella sarebbe stata la mia ultima gara, e quando i semafori si sono spenti è diventata la corsa più intensa della mia carriera». Quasi che avere un limite, un ultimo giro, una ultima partita, servisse a vivere intensamente, per poi staccarsi. E, invece, poi ci sono gli irriducibili, quelli che hanno mischiato tutto, quelli che senza il proprio sport non possono stare, bulimici come Giovanni Trapattoni sempre pronto a saltare su un aereo e a prendersi una panchina ovunque perché il calcio appartiene alla sua vita da prima che marcasse Pelé o che vincesse campionati e coppe. È la generazione “Pesaola” che viveva il calcio con leggerezza – e non per questo con meno interesse dei manager di oggi –, capace di staccare e di godersela, di continuare ad avere contatti con la gente normale e di masticare il calcio senza enfasi o di farne una ossessione. Era un lavoro per gioco e un gioco per lavoro, in mezzo stavano loro. Come ci vuole stare ancora il sorianesco Francesco Totti, che no, non smette; o come Roger Federer che dopo sei mesi d’assenza, torna a giocare dopo la rottura del menisco a Wimbledon, e dice: «il tennis mi mancava: non posso essere più felice di così, sono tornato a giocare in un bellissimo Campo Centrale, ho bendato di nuovo le caviglie, mi sono allacciato le scarpe e finalmente sono uscito dallo spogliatoio, tra l’altro per ricevere un’accoglienza del genere». Il rito di ogni sport che diventa respiro per chi lo pratica, in quelli come Federer che costretti a misurare l’assenza – seppure di lusso e con una bella famiglia – vivono per tornare, per loro lo stress non esiste, come non esiste per Zdeněk Zeman, il calmo per eccellenza, quello che non ha mai fatto distinzioni tra categorie e squadre, quello che quattro gol sopra o sotto: questo è il mio gioco; quello che dormiva mentre Sacchi già a Coverciano – fecero il corso insieme – era insonne; quello che non è mai stato uno degli “allenatori indossatori” – come li chiama Gianni Mura –, ma uno capace di andare oltre, sconfitta e vittoria, uscendo dalla normalità, così tanto da rimanere disoccupato, e non stressarsi lo stesso.
[uscito su IL MATTINO]