Hamsik: trascinatore gentile

C’è stato un Hamsik per ogni napoletano, per alcuni è stato specchio, per altri proiezione; per alcuni è stato simbolo, per altri capro espiatorio; ma ora tutto coincide e il capitano mette d’accordo tre generazioni di tifosi, incarnando quello che rende sopportabile la vita nelle sue curve di sofferenza. Marek Hamsik è in assoluto il simbolo del Napoli di De Laurentiis da dieci anni, è passato tra tempeste e lacrime, vittorie e sconfitte, sostituzioni ed esaltazioni, rimanendo sempre se stesso, un uomo pacificato prima ancora che un calciatore calmo, perché cosciente del proprio talento e del proprio percorso. Ha fatto di Napoli e del Napoli il suo posto applicando forse inconsciamente il teorema Madre Teresa di Calcutta: «c’è sempre un posto dove puoi essere straordinario, devi solo lasciare che quel posto ti trovi». Eppure la sua esperienza comincia lontano da Napoli, a Brescia, dove il sedicenne Hamsik accetta perché c’è Roberto Baggio, capendo che dove c’è uno come lui c’è calcio, a prescindere dalla storia della squadra che lo veste e del posto. Fece bene, senza Baggio oggi Hamsik non sarebbe al Napoli, e senza Hamsik il Napoli non sarebbe dove è. Il resto – come quasi per tutti, con buona pace di Manolo Gabbiadini – l’ha fatto Maurizio Sarri, recuperando quello che Rafa Benitez aveva fatto appassire, quello che Rafa Benitez aveva sacrificato, e ora che ha superato Attila Sallustro nella classifica dei cannonieri storici del Napoli, e si avvia a superare il mito Maradona, il suo nome brilla in faccia ai maligni ai superbi e ai miscredenti; e il suo corpo prenota una statua a suo nome. In mezzo c’è l’amore composto, privo di proclami e ricatti, tiri e molla, che ha portato Hamsik a dire no alla Juventus, al Milan, al Chelsea, Manchester United, Real Madrid, Barcellona e a molte altre squadre: per rimanere a Napoli; in una sorta di sentimento disciplinato che somiglia alla forza di Alex Del Piero che lo portava a sopportare Fabio Capello e le sue sostituzioni, in un tortuoso percorso di fiducia-sfiducia, di sponde di gloria e delusioni con colonna sonora di fischi e applausi. Ma Hamsik non è mai stato un calciatore banale, anzi, moderno fin dal look, portando il punk nel calcio italiano, fino a imporlo a una marea di ragazzini, senza nessuno sforzo, solo con i gol, con il suo stare in campo senza mai impazzire né consegnarsi alla volgarità di un gesto violento. Si potrebbe tracciare un grafico con il suo gradimento per poi trarne una definitiva risposta evidente a tutti meno a chi guarda il pallone con la pancia: Hamsik è il fondamento, persino quando il Napoli è costretto a misurare la sua assenza. Nella crescita di Hamsik c’è la crescita del Napoli, nella sua migliore stagione ci sono i numeri e l’estetica di una squadra che parla un linguaggio calcistico d’avanguardia che parte dell’Ajax di Cruyff, arriva al Milan di Sacchi e rimbalza per il Barcellona di Guardiola, ma ora anche questo è evidente quasi a tutti, persino a chi non capisce nulla di calcio, ma si ostina a scriverne. Ma c’è stato un momento – ora lontanissimo – nel quale Hamsik guardava smarrito verso il campo, e dagli spalti si chiedeva la sua sostituzione, mentre lui persino in quei momenti riusciva sempre a portare a casa almeno un paio di finezze che rimanevano negli occhi di chi voleva vederle. Di quando arrivò a dire in un momento di sconforto: «Non sono più quello di prima, non mi riesce nulla di quello che una volta riuscivo a fare con semplicità». Poi, c’è riuscito. E ora, in questa stagione è esagerato, esuberante, esteticamente inappuntabile, e poi segna e fa segnare. I suoi assist hanno la misura dell’infallibilità degli eroi della Marvel, i suoi tiri la bordeggiano, il resto son pallonetti, dribbling, rabone, e colpi di tacco, contorno alle discese e alle ripartenze, che fanno di lui un calciatore costante e armonioso. E dietro tutto questo c’è una volontà enorme, orientale, che fece dire nove anni fa a uno come Pavel Nedvěd: «Hamsik è il giocatore che mi somiglia di più, è il futuro del calcio». Crea e finalizza, facendo quello che vuole col pallone, in proiezione sempre offensiva, sembra conoscere una sola direzione – che sia di apertura o di invenzione – la verticalità dell’azione verso la porta avversaria. Con Benitez non andava perché gli chiedeva di muoversi orizzontalmente. E nonostante questo a Wolfsburg Hamsik si riprese il suo ruolo di guida. Il vertice di un ventaglio di triangoli che partono dai suoi piedi e si chiudono in spazi strettissimi, nell’ossessiva ricerca del gol perfetto. Anche perché l’obiettivo è diventare l’uomo simbolo del Napoli, in una sorta di scalata di quelle che il Real Madrid ha insegnato al calcio, dal campo alla panchina e poi alla tribuna, in una equa distribuzione della propria sapienza: ai giovani, ai grandi, al resto del calcio. Hamsik rappresenta l’altra faccia e l’altra possibilità, al suo percorso manca solo un grande successo, di quelli che segnano la differenza, e se anche non arrivasse, rimarranno i suoi gol, il suo essersi fatto mezzo di trasporto tra una epoca e l’altra, riuscendo ad annullare le distanze culturali, grazie a una prontezza di adattamento e agilità nell’espressione del calcio e dei pensieri. E senza le cadute, i momenti di smarrimento, le avversità, oggi non ci sarebbe l’eroe – che non esiste senza la tragedia –, non ci sarebbe l’Hamsik che viene esaltato e amato, proprio perché doppiamente vincitore: sulle difficoltà personali e su quelle della squadra. La sua è una storia fuori dal tremendismo e dell’oleografia che sempre accompagna Napoli, una storia postmoderna, senza eccessi d’aggettivi e senza sguaiataggine, quella di un ragazzo che riesce a fare surf sulle onde d’entusiasmo che si alzano intorno, che dentro e fuori dal campo ha un comportamento non assimilabile, e che si spera farà scuola. Perché nessuno meglio di lui incarna questi anni, e i tentativi di uscita dal miracolismo, dagli imbrogli – del mercato e dei bilanci che pure una parte insospettabile di Napoli ama e si aspetta ancora – in funzione di una straordinarietà che appartiene ai progetti, ai sacrifici, alla volontà. Perché Hamsik sta al calcio come Massimo Troisi stava al cinema, hanno la stessa sensibilità, e lavorano contro la banalità della cultura napoletana, contro la superficialità del racconto e il suo compiacimento,  rappresentando un nuovo linguaggio e una nuova strada di pensiero e d’opera, in una trasformazione delle illusioni in realtà, in una lettura laica e disincantata delle aspettative, con un riutilizzo della cultura cittadina in chiave contemporanea. Per questo sarebbe piaciuto ad Andy Warhol, perché è l’altra Napoli, quella inconsueta, iconica eppure dimessa, e perché capace di unire e rinnovare, avanzare e strappare, farsi simbolo perenne e da straniero, tradendo con garbo, incidendo con gentilezza. Perché il calcio del Napoli sarebbe un caos dinamico di cose tremolanti senza Hamsik.

[IL MATTINO]

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