Appare subito Jorge Luis Borges, a vederlo in azione. Ma è Norman Lewis, il nuovo campione di baseball dei Los Angeles Dodgers. Per lui i paragoni si sono sprecati, arrivando a chiamare in causa il grande Sanford “Sandy” Koufax. Solo che Norman lancia senza guardare, avendo perso la vista, ma a vederlo giocare nessuno nota la differenza.
Cosa è: un miracolo o la vittoria della razionalità?
«Sono il farsi di Dio, la mia imperfezione è la speranza dell’umanità».
Quando e come ha cominciato col baseball?
«Ho cominciato a giocare da piccolo e vedevo abbastanza bene, per questo ho appreso le regole del gioco e la tecnica, e conoscendo la mia malattia degenerativa ho permesso al mio cervello e al mio corpo di sentire diversamente il campo, di acquisire il diamante, poi ogni partita è per me una meraviglia, come quando vedevo alzare gli aeroplani e nessuno sapeva spiegarmi il trucco».
La sua storia è passata come una sfida alle regole, che ha avuto bisogno di un tribunale prima del suo innegabile talento. Ne ha sofferto?
«No, perché quasi sempre è così, pensi a Oscar Pistorius. E poi, mentre il pubblico era pronto a un lanciatore senza occhi, il campionato non lo era. Non puoi chiedere a una regola di comprendere uno come me, sono l’imprevisto».
Come sente il mondo oggi?
«Il mondo è in me, ogni volta che lancio, e il boato che segue al mio lancio è la luce che lo illumina, in quell’attimo di gioia torno a vedere, per questo non voglio mai smettere di giocare».
Il baseball è tutto per lei?
«È tutto fino a quando gioco, poi fuori sono un sospeso, ma se mi metto a pensare alla prossima gara torno ad essere qualcuno: è un continuo uscire da me per rientrarci giocando a baseball».
Prima o poi dovrà smettere, però.
«Prima o poi dovrò anche morire, e come rimando l’idea della morte così – per ora – rimando l’idea di smettere di giocare. E spero di morire tutto insieme, essendo già morto un poco perdendo la vista. Per questo gioco, per rimanere vivo. E lo farò fin quando ci sarà una squadra che mi vorrà, che sopporterà il circo che mi trascino dietro, ma anche l’infallibilità dei miei lanci».
Provi a raccontarci come fa a sentire la direzione, non potendola vedere. Come si orienta?
«Guardo a orecchio, sento l’aria, percepisco i corpi e genero l’inganno. Lo so, detta così sembro uno di quegli illusionisti che giravano l’America interna vivendo dello stupore che generavano, e infatti mi sento come Harry Houdini, ho rivoltato la mia ferita, ribaltato la mia infermità, ed essere riuscito a giocare con i cosiddetti normali e tra i grandi campioni del baseball, infrangendo record e sognando di essere uno di quelli che vedevo in foto o dagli spalti con mio padre e mio zio, mi fa impazzire. Sa, certe sere ci ripenso e rido solo, per l’intera notte».
E di che ride?
«Della mia cecità, divenuta un vantaggio. La mia nebbia scura, così chiamo il mio crepuscolo. Divenire un campione nella nebbia significa aver vinto la solitudine della malattia».
E quando non ride a cosa pensa prima di addormentarsi?
«Cerco di dimenticarmi. Come diceva Borges – così la accontento visto che mi chiedeva di lui –: Di notte uno si dimentica non solo del mondo esterno, ma anche di se stesso: al momento di addormentarsi uno non è più niente».