«Io dispongo sempre bene le mie squadre in campo. Il problema è che quando inizia la partita i giocatori si muovono», diceva Alfio Basile allenatore del Boca Juniors, dell’Argentina e di molte altre squadre. Le complicazioni vengono dopo, appunto, quando tutti si muovono al ritmo del pallone, e i pensieri rimangono sulle panchine, o arrivano improvvisi ai calciatori mentre stanno tradendo il loro compito o anche mentre lo eseguono oltre ogni previsione. Nelle doppie partite poi c’è il pressing dei ricordi, con l’ossessione di mettere a frutto quello che si appreso all’andata. Potete giurarci che Kalidou Koulibaly si ripeterà: non devo andare per terra in tackle, per ogni volta che Cristiano Ronaldo avrà il pallone e scenderà sulla destra entrando in area di rigore. E lui, invece, sadicamente, come tutti gli ego-attaccanti cercherà in ogni modo di rimetterlo a sedere, fosse solo per dire nelle interviste-ricordo: c’era questo difensore senegalese che poi è diventato anche bravo, sì, quello che è andato al Chelsea, ma allora giocava col Napoli e volevo metterlo a sedere come avevo fatto nella partita d’andata. Sì, perché Ronaldo tende a storicizzare ogni suo gesto, vive per i record e la supremazia, i titoli e il dominio, inseguendo i dettagli, tipo questo: mettere a sedere due volte di seguito lo stesso difensore, e magari segnare o far segnare. In questa ricerca non c’è solo Ronaldo, ma lo spirito del Real Madrid. Avete presente Enrico Mentana che non si perderebbe una battuta per niente al mondo? Ecco, Ronaldo non si perderebbe mai una possibilità del genere, bissare un suo gesto, umiliando l’avversario, ri-mostrando una carognata del suo ingegno. Tutta la sua carriera è costruita così, spasmodica ricerca dell’eccezionalità. È l’uomo che prevale sugli schemi e le idee. Nessuno, a parte Messi che è il rivale e per certi versi quello che gli ricorda che c’è sempre un altro col quale fare i conti, un altro da guardare e spesso da inseguire, uno che ti umanizza, e poi i Bale che sono l’evoluzione di entrambi con la perdita della fantasia, che spesso richiede la lentezza o almeno un certo tipo di lentezza. Dunque i Bale prendono il nome dal loro re: Gareth Frank Bale, gallese ma niente a che vedere con Borghezio e le sue truppe, discendente da John Charles: che sarebbe il nove di briscola, e Ian Rush: un settebello che non ne voleva sapere di sporcarsi nei bar di provincia. Bale e quelli che discenderanno da lui, sono, in pratica, un videogioco in 3D che sostituisce le carte senza perderne la memoria, in breve: al netto di fumo e alcol e delle bestemmie, trascinando quell’agonismo in una sparatoria con conseguente strage in una rush hour di una città americana con una velocità tarantiniana. Se non vi è chiaro cercate i suoi gol con la maglia del Real Madrid, lo vedrete passare come la musica di Fossati alla frontiera, lui ce l’avrà fatta, perché il suo è un calcio bambino soltanto un po’ latino, è Bolt che sa tenere il pallone incollato al piede mentre corre, così mentre tutti lo esaltano, non pensando al fatto che ne arriveranno altri, che man mano perderanno quella che per brevità chiameremo latinità di Insigne, e che invecchiando rallenterà e no non ci sarà un Carletto Mazzone a offrirgli un posto davanti alla difesa, e al Real non potranno arretrarlo come fecero con Alfredo Di Stefano, piazzandolo ad illuminare le partite. Se pensate a Bale e poi vi voltate dalla parte napoletana, trovate solo Lorenzo Insigne e Dries Mertens, ma sono una cosa diversa, più umana (appunto) se volete un termine consolatorio, con l’aggiunta dell’astuzia, ma purtroppo la condanna della statistica e poi dei gesti che mancano, anche se Insigne al Santiago Bernabéu ha segnato un gol che si ricorderanno a lungo, molto a lungo. Tutto istinto, e, claro que sì, anche tecnica, ma soprattutto astuzia d’immaginarlo, un tiro del genere che umilia Keylor Navas e fa sorridere amaro Zidane in panchina. Ma torniamo indietro ai piedi di Ronaldo e al pallone che passa sopra la testa di Koulibaly e poi arriva a Toni Kroos che la piazza alle spalle di Reina. Il tedesco è il centro del Real Madrid, è quello che scioglie la complessità, è un uomo di stampo Est, anche se nato nel ’90, non vede il muro, ma ne respira l’atmosfera, con un padre calciatore e poi suo allenatore che lo istruisce a dovere nel Greifwalder e poi nell’Hansa Rostock – in pratica fino alle grandi squadre per lui giocare era come starsene in famiglia e questa sicurezza se l’è porta dietro – e poi la madre campionessa DDR di badminton, uno fedele al Real Madrid, che ha lasciato il Bayern Monaco per starci, e che ha detto no alla Cina – pare per sempre. Una mente attrezzata filosoficamente alla geometria, basta guardare le sue aperture, o il suo gol al Napoli, una retta che misura la distanza tra il suo piede e l’angolo alla sinistra di Reina, chiamato a impersonare tutte le rigorose facce di impotenza sui tre gol. Eppure è uno dei pochi a prevalere nel duello di ruolo, Navas è un uomo piuttosto distratto rispetto a Reina, con più Cristo nelle dichiarazioni e meno parate e passaggi precisi, meno ripartenze innescate e anche meno carisma, chiamato a sovrapporre la sua faccia a quella di Casillas: che poi è il motivo principale del poco spazio di Reina in nazionale. Una catena di portieri, con Casillas che ora prende gol dalla Juventus al Porto, e Reina dalla sua ex squadra, quel Real che ha scelto Navas, tra i mugugni di molti. A voler procedere in serie ci sono quelli che han fatto vincere la partita a Zidane – da tutti definito un allenatore vicino, quello che Zeman chiama “allenatore amico” – che alla fortuna ha fatto seguire il metodo, e la capacità di tenere unito quello che Benitez aveva diviso, rimettendo insieme i cocci e vincendoci una Champions insperata. Zidane era l’ombra di Ancelotti quando il Madrid vinse la Décima, da lui ha imparato molto, anche se la storia poco raccontata di Zidane ha il nome di un altro uomo, e una amicizia da film di Sergio Leone, David Bettoni: il suo secondo, uno che ha fatto tutta la carriera in parallelo con Zinédine Zizou, persino nelle squadre minori piemontesi quando lui era alla Juve. L’eversore Zidane, una specie di monaco della panchina, che parla poco, ma conta tanto, che ha sorpreso l’eretico Sarri, quello che invece a Madrid ha fatto una grande conferenza stampa, degna di Cyrano de Bergerac, ma poi la sua squadra, come alcune di Basile, in campo ha detto e fatto altro, muovendosi male. Soprattutto in difesa. Mentre quella di Zidane ha trovato una partita quasi perfetta anche se Sergio Ramos non completa la partita, l’uomo che non solo svetta su ogni palla alzata dal campo, ma che picchia come un Passarella – per il piacere di farlo – il giovane Diawara, colpevole d’irriverenza. Ramos non lo direste mai: sognava di essere Caniggia, sì quel Caniggia e anche per via dei suoi capelli prima che dei dribbling e della corsa, anche se poi ha ripiegato su Paolo Maldini e Fernando Hierro, ed è quello che si contende le copertine con Ronaldo, e perde, anche se lui ha la fascia ed è spagnolo, e segna nelle finali, e alza le coppe, ma niente pallone d’oro. Al suo fianco c’è il calciatore che preferisce la vita con gli ostacoli, Daniel Carvajal, e infatti gioca come se fosse un siriano, «non sono un conformista. Mi piace la difficoltà, mi piace competere. Conoscere il mio limite, e quest’anno le cose là fuori sembrano difficili. E più lo sono, più io mi sento meglio, perché devo lottare. Chi mi conosce sa che, nei momenti complicati, ci sono sempre». Ed è curioso che agli occhi di sua madre, lui con la camicia del club, e le maniche scorciate come fa Baricco, sembrasse un albañil – un muratore – che non c’entra nulla con la nazionalità di Hysaj – che magari giocasse come Carvajal –, ma che viene da albañilería: che è l’arte di costruire case e soprattutto muri. Quelli che son mancati al Napoli, che ha incassato tre gol su tre errori-distrazioni-vuoti. La partita di Koulibaly finisce appena Ronaldo lo mette a sedere, e quando si rialza ha negli occhi e nella testa quella assenza, tipica di chi ha perso qualcosa. Il proletario Carvajal riesce dove sul lato opposto manca Hysaj, costruendo il muro e supportando la sua fascia, quasi come Marcelo, ubiquo come Padre Pio, ma inseguendo il suo mito e la sua scia nel Real Madrid: Roberto Carlos. E se il problema del Napoli fossero anche i miti? Che orizzonte hanno i difensori di Sarri? Chi sognano? Non lo dicono mai, ad oggi non sappiamo se Albiol – molto bravo nei movimenti senza palla – sogna di essere Franco Baresi o Costacurta, Puyol o Ramos che incitava al mondiale sudafricano, o se pensa a qualche calciatore diverso, intanto lo vediamo smarrirsi e perdersi Benzema, che alle sue spalle trova il pallone del pareggio, segnando dopo sei partite di asciutto. Un po’ pirata un po’ trafficante, a differenza dell’altro francese in squadra, il difensore Raphael Varane, l’uomo dei codici, dall’etica all’estetica, niente tatuaggi, niente social, niente gossip o multe e poche parole, solo pallone e casa, al massimo museo. Niente a che vedere con gli azzardi di Benzema, che ha quasi esaurito il suo lavoro a Madrid, e se non fosse per la sua duttilità e la sua naturale predisposizione sanchopanzesca verso Ronaldo sarebbe già altrove – fa quello che meglio farebbe solo un muro: restituisce il pallone al messia galácticos – e infatti su di lui, come avrebbe dovuto fare senza riuscirci Albiol, respira Morata, che ha rinunciato alla Juventus e a molto altro per venire a fare la promessa che torna: anima, core e soprattutto patria. Con uno così, il Napoli lotterebbe con chiunque, invece ha scelto Pavoletti. E, infatti, Morata entra e risolve, entra e rimedia, entra e convince. Come fa Lucas Vazquez, uno che guarda a Míchel, quasi per ricambiare quello che guardava a lui e lo ha portato al Madrid. E torniamo ai miti, alle prospettive, e quindi ai traguardi. Va bene che Maradona ormai copre una ampia superficie d’immaginazione pallonara dai portieri ai massaggiatori, ma i binari che si scelgono riguardano i ruoli e il carattere, ed è una equazione che si fa in base alle caratteristiche. Maradona è un sogno plurale, una bandiera, e ormai il monumento di se stesso, poi c’è il sogno singolo che è la lingua della gloria non quella dei soldi. Vazquez dal ristorante di famiglia mangiando trippa dice Míchel – uno di cui Maradona invidiava la falcata, almeno stando alla testimonianza di Jorge Valdano – e dicendolo disegna il suo binario, inseguendo una stazione davanti al suo mito. È l’altro punto di vantaggio del Madrid, essere l’esempio da seguire, il Napoli potrà arrivarci tra un po’, quando metterà in società uno come Hamsik e gli chiederà di chiamare i ragazzi per chiedere loro di venire a giocare con la maglia che fu sua. Sì, perché Hamsik, tra i due ragazzini Zielinski e Diawara, è l’esempio artigianale, costruito nonostante tutto, la matrice che sta per diventare bandiera, una cosa diversa dal mito maradoniano, un tratto umano del talento. E infatti è tra i pochi che non sfigurerebbe se si saltasse lato del campo, magari prendendo il posto di Luka Modric, che sogna Boban, e lo ripete, perché appunto ci deve essere un comandamento di Bernabéu che recita: dichiara sempre il tuo intento, ricorda sempre ai giornali quello che insegui, riconoscigli il talento e il favore ti verrà ricambiato. Troppo facile essere bravi e rimanere al Madrid, per questo Callejon è venuto via e per questo Mourinho continua a guardare le sue partite, e prima che uno dei due esca dal giro si rincontreranno. Il calciatore intelligente, tra i primi al mondo negli inserimenti, con una profonda consapevolezza delle proprie capacità, ha fatto quelli che in molti immaginano soltanto: è venuto via, dall’Hollywood del pallone, senza lagnarsi tipo Michele Santoro fuori dalla tivù o mettersi a fischiettare il Boléro, no, lui si è messo a correre e segnare, diventando il perno fisso del sarrismo. E a Madrid in molti lo rimpiangono, ma non c’è tempo, è una catena di montaggio: venuto via un modello, se ne produce un altro. L’importante è esagerare, come ha fatto Casemiro inventandosi un gol che era una variante nel panorama dell’attacco madridista. Di solito supporta, assiste, un vagocampista generoso, che non piaceva ad Ancelotti ma strapiace a Zidane, l’uomo non visto, nemmeno dalla difesa napoletana. È il calciatore responsabile che da quando aveva dieci anni, rimasto senza padre, si prende cura di suo fratello Lucas e di sua sorella Bianca, con una sola stanza a disposizione, una storia comune in Brasile, che ti abitua a pensare veloce e a rischiare tanto per scavarti occasioni di vita. Per questo tira, a volo, e segna. È la povertà che porta al santuario delle decisioni rapide e delle conclusioni definitive. E che insegna la pazienza, quella di Isco, non in fase particolarmente brillante, ma non così tonto da creare un casino in squadra, anche perché a tutti sembra di dar fastidio ai silenzi di Zidane. Isco se ne sta in panchina, e quando entra segna, pensa ad Ancelotti che diceva di vedere in lui un Seedorf, e aspetta che si stanchi James Rodríguez – uno che ha Zidane come mito, seguendo le chiarissime indicazioni della squadra sul dichiarare il binario da seguire. Tutto sta nel dichiarare e perseguire, fare e rifare, e sempre meglio. È il trucco per vincere la paura del palco, del campo e della vita, come insegna Bernabéu.
[uscito su IL MATTINO]