Con lo sterzo traballante che tirava a sinistra, i cordoli da scansare come paletti, Valtteri Bottas e Lewis Hamilton a poggiargli il muso delle Mercedes negli specchietti, e Kimi Raikkonen a fare da barriera, così ha vinto Sebastian Vettel in Ungheria. Strategia di squadra e grandi capacità. Raikkonen, prima riottoso, ha accettato il ruolo di Yanez de Gomera, e a quel punto Vettel si è messo nei panni di Sandokan col turbante al posto del casco, dalla loro ritrovata sensibilità e da una sintonia imposta è uscita una gara di perfezione. Così la Ferrari ha vinto a Budapest, una pista dove è difficile superare, se c’è qualcuno bravo a fare catenaccio, con una macchina in questo caso, e Raikkonen è stato bravissimo, un cursore difensivo che ha sbarrato la strada agli avversari. La somma di due grandi fatiche ha portato una bella giornata, una giornata da Ferrari. Nel mondo ipertecnologico della F1, Vettel ha tirato fuori capacità e carattere, quello che un tempo, Juan Manuel Fangio togliendosi gli occhialoni impolverati avrebbe definito come: «Manico», replicando gli insegnamenti del padrone, il Rex, l’Enzo Ferrari, che gli avrebbe risposto con una frase che tutti i piloti della Rossa dovrebbero sapere a memoria e ripetere in giornate come quella ungherese: «Sono peggio di tanti altri, ma forse ce ne sono pochi migliori di me». Vettel è così. Ha fatto una cosa da Ayrton Senna – che vinse nel 1991 sul circuito di Interlagos nonostante perdesse le marce ad ogni giro, rimanendo solo con la sesta, e uscendo col braccio destro a pezzi – con la determinazione di Michael Schumacher. È stata una gara noiosa, tutta incentrata su Kimi Raikkonen più che su Vettel, sulla sua capacità di resistenza, nel nodo creato dal pilota finlandese; e tutti hanno pensato che niente raccontasse meglio questo anno della Ferrari, mentre lo sterzo tirava dalla parte sbagliata, Vettel, caparbiamente, resistendo alle spinte, continuava a correre e stare in testa, raddrizzandolo. Settanta giri di opposizione, due ore di processione e di tirannia, con gratitudine immensa per il compagno di squadra che ha difeso il risultato. Ha funzionato l’ordine di scuderia, che si è innestato sulla forza di volontà di Vettel. Un anno fa la squadra Ferrari era a pezzi, ora ha dato una grande prova d’unione, tanto che non si vedeva un Marchionne così raggiante dai tempi delle pacche sulle spalle con Barack Obama. A Budapest è rinata Federica Pellegrini, da Budapest la Ferrari mostra di avere i numeri, le capacità, e forse anche la macchina per andare fino in fondo (il team ha passato tutta la notte a cercare il giusto assetto), anche se i prossimi gran premi sono favorevoli alle Mercedes, tra le rosse si è rivisto quel moloch di sentimenti e motori che ha sempre fatto la differenza. Era una tappa decisiva, questa ungherese e si è risolta nel migliore dei modi: con una doppietta sul podio, e una gara di perfezione in pista. Hamilton gliela aveva buttata: «Speriamo che la Ferrari abbia qualche problema, altrimenti non la sorpasseremo mai». Invece, Vettel si è fatto paradigma, oltre la gufata del pilota Mercedes, oltre lo sterzo tremolante, oltre i numeri e gli attacchi degli avversari. La sua è stata una stretta insistente, si è attaccato al volante come al primo posto, e non li ha mollati, spingendo con la leggerezza delle rondini fino alla vittoria. Tra spasimi, accelerazioni e curve ha difeso l’orbita della propria fuga, superando la disavventura e galoppando verso il traguardo. È una vittoria che consola perché mostra un pilota che non si scoraggia, niente di spericolato, piuttosto un ragionato assalto al campionato mondiale. Cuce punti, quattordici più di Hamilton, e aspetta di superare il resto delle ombre che mancano.
[uscito su IL MATTINO]