Arundhati Roy: meglio 50 giorni da orsacchiotto

Come insegnava Massimo Troisi: bisogna ricominciare da tre, perché il secondo, che sia romanzo o film, si sbaglia. Lo avevamo visto già con Harper Lee: non bisognerebbe tornare anni dopo a insidiare se stessi, Arundhati Roy lo ha fatto, con “Il ministero della suprema felicità” (Guanda), ed è inciampata. Partita come sceneggiatrice, aveva convinto tutti venti e fischia anni fa con “Il dio delle piccole cose”, poi si era messa a donchisciottizzare contro dighe e multinazionali, portandosi la politica e le ossessioni conseguenti dentro la scrittura, di cui questo ultimo romanzo risente. Vorrebbe essere Franzen, ma sembra Veltroni con il suo ultimo film “Indizi di felicità”. Parte da Nâzım Hikmet – già malamente usato da Özpetek – per spiegare al lettore che tutto il suo viaggio indiano da Delhi a Delhi: sobborghi, bordelli e rifiuti, sarà questione di cuore. Un cuore che fa da staffetta, unendo i molti personaggi che aprono ad altri ancora, storie su storie, in ordine di apparizione e rilievo vanno nominati: l’ermafrodita Anjum, la smaniosa Tilo, l’istintivo Saddam, e la ragazzina Zainab. Man mano che si scalano le quattrocento e passa pagine si sta sulla soglia dell’effetto Potëmkin, un macinare continuo che dall’acme delle Torri Gemelle che crollano – si parlerà l’urdu a New York? – arrivano all’ultimo bambino indiano, ed è subito Jovanotti con la sua chiesa cucita in casa. Muore di troppa trama il romanzo della Roy, in un clima piuttosto iettatorio, portando il lettore a spasso tra strade scassate, frasi da mélo, tempi morti e improvvise scene da Bollywood scolorata, in una schizofrenia sociologica che non regala mai stupore, ma solo note rantolanti.

[uscito su IL MESSAGGERO]

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