The Bronx Bull

Si definiva «un brutto peccato mortale», dimostrando di avere oltre i pugni un talento come umorista. Jake LaMotta, che se ne va a novantasei anni. «La boxe la fai se hai fame», diceva, che poi è divenuto un assioma, insieme all’assicurazione elargita con faccia di conseguenza e whisky nella mano destra: «La boxe non è pulita». E in quello sporco ci metteva il sangue, la puzza del sudore e la corruzione, come il respiro della morte, che oggi è scomparso dal ring e pure dalle spalle dei pugili. Avrebbe fatto impazzire Jack London, per quanto era selvaggio e spietato. Senza nessuna finzione, se non quella successiva di reinventarsi recitando. Bastava incrociare il suo sguardo per credergli, e decidere di dismettere ogni ostilità, perché lui aveva cominciato per strada: difendendosi con un punteruolo e poi con i pugni, a mulinello, e infine ne aveva fatto un motivo di sopravvivenza. Il suo primo ring fu un marciapiede del Bronx dove sfidava i bulli, tirandoci su qualche dollaro: improvvisando incontri; poi divenne un professionista, infine un attore, dopo quello che raccontava una gran bella storia. Era uno svelto di mani e testa, che sapeva far correre anche lingua e pensieri. Fu così che passò da “The Bronx Bull” (il Toro del Bronx) a “The Raging Bull” (“Toro scatenato”) con Robert De Niro a interpretarlo e Martin Scorsese a dirigerlo. Una vita da film, aveva tutto apparecchiato: dalla povertà alla gloria, dalla sfida continua con Sugar Ray Robinson alla mafia italoamericana fino a Hollywood, e lui in mezzo a muoversi con sapienza. LaMotta era pugile molto grezzo, per nulla raffinato, ma con una intelligenza di fondo a guidarlo, che lui mischiava alla furia. Era nato a New York il 10 luglio 1921, ma suo padre veniva da Messina, infatti all’anagrafe era Giacobbe La Motta. Cresciuto negli strati profondi della città, aveva imparato violenza e finzione, colpi proibiti e bassezze, unendo le movenze di un felino all’astuzia di un ladro di auto. Braccia corte, ma compatte; aggressivo al limite del regolamento, ma non scriteriato. C’era una follia controllata nei suoi pugni, e se non avesse avuto una bulimia sociale a contrastarlo avrebbe raccolto più titoli e soldi. Ma Jake s’è infilato di forza nella Storia, sfondando porte e abbattendo pugili, accettando d’essere corrotto e corrompendo, è talmente oltre la noia biografica dei pugili di oggi da sembrare una invenzione di James Ellroy. Non aveva scrupoli o meglio non poteva permetterseli, e quando finalmente poté: non ne aveva più voglia. Abituato al filo del baratro, il ring fu una villa con piscina. Per raccontarlo usava una storia che è un romanzo:  «Eravamo così poveri che a Natale il mio vecchio usciva di casa, sparava un colpo di pistola in aria, poi rientrava in casa e diceva: spiacente, ma Babbo Natale si è suicidato». Tutta la sua forzatura, il suo adattare ferocemente la vita alla boxe, sta nella sofferenza che ha fatto patire al suo corpo, perché per tutta la vita ha lottato contro la fame che gli imponeva la memoria della sofferenza, quindi mangiava e mangiava e mangiava e poi doveva dimagrire. La lotta di un carro armato che deve diventare un motorino e che poi ritorna un carro armato, e via così fino a quando il gioco con incontra i pugni definitivi di Sugar Ray Robinson. Quel match divenne il «massacro di San Valentino»: era il sesto combattimento tra loro, una sorta di saga pugilistica, qualcosa tra Indiana Jones e Guerre Stellari ma senza finzioni; in quelle sei volte LaMotta portò a casa una sola vittoria, ai punti, dopo aver scaraventato sulle corde l’avversario all’ottavo round. Robinson non doveva oscillare tra tavola e sauna, LaMotta sì. Con Bob De Niro che nel film gli va dietro rendendo chiaro a tutti che gli incontri di LaMotta erano solo la parte conclusiva della sua arena. «Tra un match e l’altro ingrassavo sempre terribilmente: nell’arco della mia carriera ho dovuto buttare giù quattromila libbre in tutto (circa due tonnellate), e tutte le volte era una tortura. Prima di quell’incontro pesavo ottantacinque chili e dovetti scendere a settantadue e mezzo. Per settimane mi allenai mangiando appena e quasi senza bere, ma il giorno prima del match ero ancora quattro chili sopra il limite. L’unico modo per farcela era la sauna: dentro e fuori in continuazione, morivo di sete ma non potevo bere; mi lasciarono succhiare un cubetto di ghiaccio e resistetti. Subito dopo essere stato pesato, non riuscii a mangiare, avevo lo stomaco chiuso; mi diedero del brandy. Le prime dieci riprese le stavo vincendo io, ma poi non riuscivo nemmeno ad alzare le braccia, e Robinson continuava a riempirmi di pugni, mi ha colpito trenta – quaranta volte». Il risultato era tutto nella sua faccia che sembrava una palude, quella resistenza gli portò un bizzarro titolo anni dopo: quello di “mascella più resistente della storia”. Prima di quel 14 febbraio del 1951, LaMotta conquistò il titolo mondiale dei pesi medi il 16 giugno 1949 a Detroit, togliendolo al francese Marcel Cerdan, uno bello, con una storia da film di velluto, che aveva come colonna sonora la voce di Edith Piaf: innamorata di lui. Jake gli tolse il titolo e poi non ebbe il tempo di concedergli la rivincita perché Cerdan morì in un incidente aereo alle Azzorre. LaMotta difese la corona contro l’italiano Tiberio Mitri e il francese Laurent Dauthuille, prima di finire sotto i colpi di Robinson. Sceso dal ring (14 aprile 1954) dopo 106 incontri: 83 vittorie, 19 sconfitte e 4 pareggi, da proprietario di un nightclub in Florida: si fece sei mesi di carcere per istigazione alla prostituzione. Successivamente, avendo smesso di colpire il sacco si mise a vuotarlo, ammettendo di aver perduto per volere di Frankie Carbo – il mafioso italo americano che governava la boxe –  contro Billy Fox, comprando la casa a sua madre, dopo aver scommesso contro se stesso. Anche con Mitri doveva perdere, ma l’italiano non riuscì a batterlo nonostante le doti da attore di Jake, poi esercitate ne “Lo spaccone” di Robert Rossen, e “Bocca da fuoco” di Michael Winner dove c’era anche Sophia Loren. Jake ha percorso il tempo attraverso le pagine dei giornali di gossip, ha avuto sei figli e sette mogli diverse, e sulle mogli aveva sempre delle storie: «La mia prima moglie è morta per aver mangiato dei funghi avvelenati. La mia seconda moglie è morta per aver mangiato anche lei funghi avvelenati. La mia terza moglie, invece, è morta con la testa fracassata, perché si era rifiutata di mangiare i funghi». Inventava, o prendeva a prestito dalla realtà, come quando commentò il divorzio con Vicki: «Mi diceva che non aveva abbastanza vestiti, ma io non le ho creduto, fino a quando non l’ho vista posare nuda su Playboy». Apparteneva a quella boxe che scriveva il cinema e suggeriva i romanzi e, boxando, poteva stare tra Frank Sinatra e Jerry Lewis, senza stonare affatto: attraversando le notti americane con l’obbedienza del sangue in disparte.

[uscito su IL MATTINO]

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