Voleva diventare un criminale Nicolai Lilin: cruccio o sogno mancato, ne ha fatto una biografia letteraria. La gente gli crede, Einaudi pure, lui va avanti. E scrive, scrive e disegna, anzi disegna e tatua, scambiando un romanzo per un manuale per tatuatori, che ammanta di favole e ricordi di guerra. “Il marchio ribelle” è “La paranza dei bambini” savianesca ma all’ombra di Chernobyl, con la guerra generazionale all’interno della mafia russa e la perestrojka di Gorbaciov all’orizzonte. Il tremendismo di Lilin annoia quasi subito come quello di Saviano, tra tremori e morti a raffica che fanno da sfondo alla réclame per i suoi tatuaggi. Ogni pagina ne appare uno, con le spiegazioni e le differenze, con i ragni degli spacciatori zingari e gli uccelli dei reduci dall’Afghanistan, il Vietnam triste dell’Urss. E giù storie di segni. Ma Lilin non è Roger Caillois. La voce narrante ha sei anni, si fa iniziare col rito dello sparo alla propria ombra, e diventa un Piede Scalzo all’interno di una gang, ha la strada come habitat e si nutre di notizie del mondo criminale. Lilin torna a Fiume Basso il quartiere di Bender dove è nato e si impegna molto per spaventare e impostare il tono da reduce, così innamorato di sé da perdersi. L’epica ha bisogno di essere cucita, non basta rinchiudersi in una bara da vivi e farsi sotterrare per mostrare il coraggio. Venire dopo Quentin Tarantino, in una scena del genere, non aiuta. Troppa morte e tatuaggi di conseguenza, armi e coraggio, e una rabbia mai umana che tradisce l’artificio.
[uscito su IL MESSAGGERO]
Da mediocre criminale Lilin avrebbe avuto solo guai, da mediocrissimo romanziere ne ha molti meno e parecchi rubli in più.
è una buona ipotesi,