Da una vita esagerata a una generativa. Dalle uscite all’oro. Adesso non è più quella esaltante e stramba, la sciatrice dispari che scende scomposta: si lascia ammirare perché anomala, ma raccoglie meno di quello che potrebbe, no, ora Sofia Goggia è altro da sé, anche una cecchina e una samurai come si auspicava, è la prima donna a vincere un oro olimpico nella discesa libera. Davanti alla norvegese Ragnhild Mowinckel, e all’americana Lindsey Vonn – amica e rivale, la sciatrice e campionessa da battere – che ha definito la gara di Sofia: “intoccabile”. Lei che di solito non lo è affatto, anzi, pulizia e perfezione sono le parole che mancano a chi la vede scendere. E invece questa volta: via il superfluo, via tutto, resta solo la discesa, quella perfetta. Una sola cosa con gli sci. Come ha sempre ripetuto, per poi diventare una sola cosa fuori dagli sci. Lei che al pari di una bambina non riesce a stare ferma e tocca tutto e fa ammuina, tanto da non sembrare bergamasca. Lei che suona il tamburo a PyeongChang alle Olimpiadi invernali in Corea del Sud, lei che balla e che trascina, con una leggerezza contagiosa che dalle piste arriva ai social passando per la tivù: chi l’ha vista da Alessandro Cattelan spiegargli le differenze tra gli stili di discesa alzandosi e mimandoli: ha capito che era una sportiva fuori dal ruolo, una sciatrice che ride. Per poi incupirsi nel post gara. Questa volta no, questa volta la Goggia – come direbbe lei, che al pari di Maradona ed Elvis parla di sé in terza persona – è cresciuta, disputando la gara della maturità. Ora ha una visione, non solo una visuale, come prometteva qualche tempo fa, quando la visione era lontana e la visuale era grigia. La ragazza cattiva che sciava sporco e che voleva stracciare tutto, lo ha fatto davvero, riuscendo ad essere meno cattiva e più precisa, meno valanga e più proiettile. Sofia è forse quella meno perfetta, anche incompleta – paga anche il dazio a una famiglia normale di non sciatori: il padre Ezio ingegnere e pittore che la ritrae di continuo, e la madre Giuliana insegnante di lettere – con uno stile unico per niente classico mai accademica e non avendo nessuna voglia di uniformarsi, perché ha altro: l’incoscienza e l’aggressività da pirata, quel tocco coraggioso di tentare cose che le altre non tentano, di riuscire in cose che ad altre non riescono, proprio perché più interessata alla ricerca della velocità che alla tecnica, tanto da ricordare Samuel Bode Miller che vedendola scendere ha commentato: “è matta come me”; uno scarabocchio sulla neve, che però ha avuto ragione. In modo singolare e con una pazienza da fiume ha raggiunto l’obiettivo che sognava da quando aveva sei anni: vincere l’oro alle Olimpiadi. E per trovare un altro italiano come lei, bisogna saltare il genere femminile e scavare nella neve e nel tempo arrivando fino a Zeno Colò (nel 1952). La pasticciona è diventata cannibale, la maldestra ha trovato un suo moto di perfezione: fuori dagli schemi, ma dentro il tempo. Da Foppolo a PyeongChang la discesa è lunga, soprattutto fatta di cadute e infortuni, rinunce e sacrifici, alti e bassi, mille gare e mille sconfitte, gioie e dolori, per poi arrivare all’oro, tanto che nel post gara ha stretto in un abbraccio fortissimo Dominique Gisin, ex sciatrice alpina svizzera, ricordando di quando vedendola infortunata – si era rotto un ginocchio a Lake Louis nel dicembre 2013 – le aveva ceduto il suo posto in prima classe al ritorno dal Canada. Sofia aveva poi commentato per Sky l’oro a Soči della Gisin, adesso si sono invertite le parti. In mezzo c’è la pazienza della Goggia e tutto il suo essere sempre troppo. Debordante, incontenibile. Tanto che quando ha strappato il microfono alla giornalista svizzera che accompagnava l’ex sciatrice, nel raccontare la storia della loro amicizia come epilogo non ha detto: ed ho vinto l’Olimpiade, no, ma “e io sto vincendo l’Olimpiade” come se la gara fosse ancora in corso. “Ero così concentrata sulla gara che non trovo neanche le parole. Sono molto orgogliosa. La vittoria la dedico a me stessa, al mio bel paese e alle persone che vogliono bene a Sofia indipendentemente dal fatto che vinca alle Olimpiadi. Grazie a chi ha creduto a una bambina che a 6 anni sognava di vincere le Olimpiadi sulle nevi di Foppolo. Qui non ho sentito pressione, ero molto concentrata sulle cose che dovevo fare, soprattutto oggi. Ho curato i dettagli, io che di solito sono una pasticciona. Non ho preso rischi, ho soltanto usato il cervello perché ogni tanto ce l’ho. Sono stata una samurai. Non sarò mai la sciatrice che scende con classe, quando passo io faccio rumore come se suonassero mille chitarre. Ma sono così, e questo oro non mi cambierà. Resto Sofia, con la gente che mi avrebbe continuato a voler bene, ad amarmi anche se non avessi vinto questa medaglia”. È una ragazza semplice (25 anni soltanto), che quando smette di allenarsi si perde nelle trame di Ken Follett. Cerca l’immediatezza, non tergiversa, va dritta al fatto e spiega la praticità delle scelte, portandosi dietro una profondità contadina che piacerebbe a Ermanno Olmi, così quando la intervistano, non riesce a fingere, persino davanti a un vezzo da donna: le unghie rosso rubino, si giustifica dicendo: “Non è per vanità, ma perché ho trovato una signora che me le fa gratis. In più, copro le ragadi del freddo”. Intanto si rigira la medaglia d’oro tra le mani, e la guarda incredula, sospirando. Presa in contrattempo dalla gioia. I suoi gesti, i suoi salti, il suo ondeggiare sono tutti lì. Ardono nella complicità del suo sguardo, che ne rivive la bellezza.
[uscito su IL MATTINO]