Sul bancone c’erano quattro dita, le orecchie, parte delle labbra e del naso, la lingua, i testicoli e il pene di Giancarlo Ricci, ex pugile, che giaceva supino: braccia e gambe divaricate e incatenate, mentre Pietro De Negri detto “il canaro” gli urlava: «Mamma mia come t’hanno conciato male! E chi è stato sto figlio de mignotta?». E poi, prima di fracassargli il cranio, lavargli il cervello con lo shampoo per cani, e di fargli ingoiare i propri organi staccati, soffocandolo: «Se non dici che è stato il canaro a ridurti così, ti porto all’ospedale». Intanto gli gettava benzina addosso e cauterizzava le ferite con il fuoco. «Non moriva mai, pareva uno zombie».
«Il rito è finito. Lentissimamente il delirio si dilata, si scioglie. La tentazione dell’assassino è ora di trascinare il corpo della sua vittima fino alla piazza del quartiere e mettergli addosso un cartello con su scritto: «Ecco qua il famoso pugile! ». Esauritosi il furore estatico e smisurato della belva, il canaro cerca ora l’impossibile applauso della comunità, liberata finalmente dal male. Ma purtroppo il rischio è grande: quel cadavere legato al pavimento del negozio può a sua volta vendicarsi facendolo rinchiudere in un carcere a vita. Se ne deve sbarazzare nel buio e nel silenzio, mentre tutto il quartiere dorme. Nessuna traccia del delitto deve restare in quel tempio della morte. Con la santa pazienza, in attesa che cali la notte, prende il tubo dell’acqua, lo spazzolone, lo straccio e comincia a pulire a fondo il locale. Poi, con le mani esperte di chi ha fatto tanti mestieri, riaggiusta lo sportello metallico della gabbia, sfondato dall’indomabile pugile. Del massacro resterà solo una minuscola macchia di sangue a due metri d’altezza sulla parete».
Così, Vincenzo Cerami, in “Fattacci” (Einaudi, adesso in Mondadori), descrive minuziosamente la vendetta del canaro, ripercorrendone la vita e poi l’omicidio che lo renderà famoso. Cerami lo fa scrupolosamente, lavorando sui dettagli e la lingua, per restituire la violenza, e anche i fatti che l’hanno scatenata, non tralascia nulla, ci sono stralci del memoriale del canaro, pezzi di conversazioni nell’ufficio della Mobile:
«Io non avevo intenzione di ammazzare Ricci, mi sarebbe bastato dargli una lezione: gli avevo spezzato i polsi, le nocche, tutte le dita. Quando mi sono avvicinato per slegarlo e lui aveva le mani blu, gonfie come pagnotte, che gli ciondolavano dalle catene e non dava segni di vita, ho pensato che era morto. Mi sono avvicinato per sentirgli il cuore. Ma lui con un balzo mi stringe le braccia intorno al collo. E allora giù tortorate. Ancora così, mezzo morto, ha avuto la forza di dire che avrebbe ammazzato mia figlia. Allora non ci ho visto più. Per lui è stata la fine!»
ci sono interviste alla sua ex moglie e alla madre di Giancarlo Ricci, e quando deve raccontare il contesto si affida a un altro grande scrittore: Sandro Onofri che alla Magliana ha insegnato lettere e che ebbe, anche se per poco, l’ex pugile come allievo:
«Verso la fine della via della Magliana, lì dove la strada sembra incastrarsi tra i cofani di macchine e bancarelle, prima di scatenarsi libera verso il mare e l’aeroporto, si apre all’improvviso una rientranza tra i muri alti di due edifici. Una specie di cortiletto, inserito tra un tabaccaio e un negozio di autoricambi, dove poche piante sistemate davanti a un portoncino resistono alla mancanza di luce e al fumo, qua due gerani e là una margherita, o tre fiori di pitosforo. In quel cortiletto, al numero 253, c’era la toilette per cani di Pietro de Negri».
Già solo questo pezzo fa capire che un film scritto da Onofri sarebbe stato grandioso, ma poi fa di meglio, ci fa vedere il male in stile “True Detective”, quasi che il genius loci contenesse già il massacro, o peggio che quello dell’ex pugile fosse solo l’unico visto, l’ultimo di altri che l’hanno preceduto e non hanno trovato pagine di giornali né di libri, indagini della polizia e colpevoli:
«Trenta anni fa, solo trenta anni fa, la Magliana era un alternarsi di canneti e campi, di vigneti e prati in cui i pastori portavano a pascolare le loro greggi. Quella campagna piatta sui margini del Tevere, bruciante d’estate e brumosa nei mesi freddi, invasa tutto l’anno da nuvole di zanzare, era soltanto punzecchiata di tanto in tanto da capanne un po’ misteriose, sempre disabitate nelle quali qualcuno lasciava gli attrezzi, le carriole, le falci, e che i ragazzini usavano spesso come rifugio durante le loro eterne guerre di sassaiole e mazzafionde. Una distesa a perdita d’occhio, che d’estate si screpolava come la guancia di una nonna, coi ciuffi rinsecchiti di cardi e di spine, i sentieri color pancia di cane, e d’inverno diventava una spianata di argilla grigia, che respirava sotto i piedi a ogni passo, e sbuffava piccole bollicine dai buchi del terreno. Le ombre delle mille gru che si innalzavano su quella terra di orticelli e di capanne dovevano però avere in sé qualcosa di mostruoso, se è vero che ovunque si allungassero ( e si stiravano all’infinito, la sera, quando il sole rosso s’abbassava laggiù dalla parte del mare) bruciavano tutto, come un acido corrosivo».
A parte l’evidente grandezza di Onofri, del suo sguardo e della sua scrittura, si intuisce come la storia del canaro abbia una radice del male che si genera dal quartiere entrando nelle ossa dei protagonisti della storia, e se ho fatto questa lunga premessa letteraria, prima di analizzare “Dogman” – il film di Matteo Garrone che utilizza questa storia, rendendola altro – è per mostrare che sia la violenza che il contesto richiedevano un regista meno stitico di Garrone, oltre che una concentrazione maggiore su ritmo, tensione e trama. Garrone invece ha scelto l’estetismo, e anche una violenza soft, ha ridotto il canaro a personaggio veltroniano, che vuole solo le scuse da uno che non solo lo vessa, sfrutta, picchia e umilia, ma lo manda anche in galera; mentre continua a vessare, sfruttare, picchiare e umiliare un intero quartiere. Garrone asciuga tutto, reinventa il quartiere a Castel Volturno, lavora tra due palazzi e una piazza, e il negozio del canaro. C’è la sua luce, la geometria, la solita salita di macchina in una ascensione di sguardo verticale, e pure i soliti difetti: buchi di trama e un ritmo sonnifero, avendo una storia che invece richiedeva suspense da primo Dario Argento, invece Garrone ha in testa una sorta di neorealismo pop, Rossellini in minigonna, e non è Isabella, trascinato in periferia. Non so se abbia letto Cerami e Onofri – ovviamente non sono obbligatori – però ci sono pezzi onofriani che lasciavano immaginare un cinema diverso per questa storia, oltre “Lo chiamavano Jeeg Robot”, e dalla parti di Lynch, cose tipo questa:
«Chissà per quale combinazione chimica l’acqua di quelle pozzanghere, a contatto col grasso delle macchine o forse per un po’ di varechina versata dalla borsa di plastica di una povera massaia, prendeva le colorazioni più fantasiose, rosse o bluastre, in cui il cielo si specchiava, splendido e sozzo, come un nobile in disgrazia».
La colpa di Garrone non sta nel fatto di aver scelto una sobrietà di scene e violenza, ma di aver articolato la storia in modo schizofrenico, quasi sprecandosi. Le sue scelte risultano incomprensibili, come pure la riduzione della rabbia del canaro, in pratica il momento clou è depurato di ogni tensione, divenendo una scena da tivù e non da cinema, manca la perfidia, il riscatto, la volontà canagliesca di sopraffare una volta e per sempre il piccolo male delinquenziale col grande Male del riscatto. Il canaro diventa un personaggio da fiction, con il suo tormentone: “amoreeeeee” detto ad animali e figlia, lasciandolo sulla soglia dell’orrore, all’ombra delle sue gesta, perché quando andava utilizzato – nella scena della tortura – non c’è, e ci sono banalità. Quell’“amoreeeee” poteva essere una magnifica ossessione bidimensionale che univa il padre e l’uomo generoso – anche se picchiava la moglie – e buonissimo nel personaggio di Edgar Allan Poe che diventa. Niente.
«Sono un uomo normale. Sono un uomo come tutti gli altri, con pregi e difetti. Quello che è capitato a me è l’imponderabile, potrebbe capitare a chiunque: ciò che ho fatto non lo rifarei, ma sarei ipocrita a dire che mi pento».
Cerami commenta queste parole cercando di mostrare il Male che abita tutti, svelandone la facilità di uscita, e si stacca dall’idea di Garrone che trasforma la storia della Magliana in un film di Ken Loach:
«In questa dichiarazione l’assassino senza saperlo fa riferimento ai demoni che dentro tutti gli uomini perennemente dormono, come dentro gli antichi vulcani. Lasciati in noi dal peccato originale. Essi si agitano appena nei cattivi sogni, negli incubi notturni, nelle angosce apparentemente immotivate e nei normali lampi della quotidiana follia: essi debbono dormire, o ci divorerebbero. Debbono essere lasciati al loro sonno o non avremmo scampo».
Garrone sceglie il sonno, persino il trasporto del cadavere sulle spalle – il grosso sorretto con sforzo dal piccolo – che poteva essere una grande scena western alla Sergio Leone, non ha epica. Un cinema al ribasso, che però grida fuori dalle scene, raccontandosi con una enfasi che non c’è. Lo sguardo di Garrone è ingannevole, come è ingannevole il premio a Marcellino Fonte “volto antico”, che possiamo immaginare tra qualche anno in una salumeria davanti al Mario Brega di turno che cerca di pagare con la Palma d’oro ricevuta a Cannes, come migliore attore in concorso, condannato ad essere per sempre quel cupo, dimesso, polveroso, museino portatile del neorealismo pop. «Ahò ‘a sta palma te ce lego, me devi da pagà in euri, c’hai rotto er cazzo co’ sta storia der firm». Catapultato in una vita da “Ricotta” pasoliniana. Costretto a morire da personaggio, che resta marginale anche nella fiction per colpa della sua mite eccentricità noir.
[…] quello che non sembra essere possibile, contiguo, e invece lo è. Qua Matteo Garrone ha girato “Dogman” facendone un paese western che evoca la Magliana, una doppia riscrittura, che diventa un luogo […]