Se Giancarlo De Cataldo non avesse interrogato i ragazzi che gli stavano intorno, se non ci fossero le scene disegnate di un fumetto che poi diventerà pure pubblicazione, se avesse contenuto l’ego di Eugenio Scalfari, se il montaggio non avesse tagliato la prima parte sul parlato, e se non ci fosse stata la lettera finale, “Pertini il combattente” poteva essere un piccolo gioiello, su un politico e una persona dispari: per storia, temperamento e vita. Invece, ne viene fuori un compitino a scopo didattico, con De Cataldo che spiega la storia spicciola a dei ragazzi che poi dicono la loro, oscillando tra un programma di Corrado Augias, “per un pugno di libri” e lo Zecchino d’oro per ripetenti. Poi c’è tutto: Bologna80, Vermicino81, Spagna82, Pazienza che lo disegna e Venditti che lo canta per poi non saperlo raccontare; vediamo sfilare Berlinguer, Pannella e Craxi che ne elogiano la figura, Ingrao che conta i voti, Zoff gli errori a carte, la Bonino che ricorda una cioccolata come una carezza di notte in una delle tante barricate dei radicali, Don Riboldi via Marcello Sorgi un assegno da tre milioni per i bimbi del Belice – con l’immancabile Troisi –, un giovane Crozza che lo interpreta in uno sceneggiato Rai, Scalfari che racconta le sue partecipazioni alle riunioni di redazione (fatto che spiega la bellezza in quegli anni di Repubblica), gli Skiantos che ne fanno una canzone, c’è tutto o quasi (manca Carmelo Bene che Pertini chiamava il “Superintelligente”, e che era spesso suo ospite al Quirinale). De Cataldo che prima del film con Graziano Diana ne aveva fatto un libro, “Il combattente. Come si diventa Pertini” (Rizzoli), è anche sobrio ed efficace quando non interroga fuori dal film i liceali con i loro pensieri banali, ricostruendo il mito di Pertini, il suo non passare di moda tanto da far commuovere Gad Lerner dopo aver raccontato la prima pagina di “Lotta continua”, e il suo saper stare persino in disparte. Non si vedessero i trucchi, ma solo l’anima, il film sarebbe davvero bello, tra immagini d’epoca, interviste e soprattutto vignette di Paz, anche se bordeggia l’agiografia, non c’è nessuno a mettere nemmeno in dubbio le uscite di Pertini – ci prova De Masi andando fuori traccia –, eppure bastava raccontare che molti suoi compagni lo vivevano come una disgrazia politica, che lo sopportavano male, e spesso subivano, in nome del socialismo che svendevano, al punto di infangarne simbolo, nome e storia, durante e soprattutto dopo la sua presidenza. Poi, certo, c’è il Pertini pragmatico e assoluto, che incoraggia i giudici sullo scandalo Petroli e rassicura Gherardo Colombo sulla P2, una garanzia di legalità oltre che di obiettività e libertà; c’è il Pertini spiritoso e informale, persino quando a ripeterne le parole arriva Ricky Tognazzi che fa Orson Welles con lo spartito; e c’è il Pertini terrorista assolto nientepopodimeno che da Paolo Mieli. Era l’autorità morale che non avremo più, l’uomo autorizzato a tutto e che non se ne approfittava. E no, non è vero che pensava solo agli operai, riusciva a pensare anche agli altri, il problema era il loro che non lo ascoltavano né seguivano. Mancano un po’ di cose, tra queste: il rapporto con Wojtyla – “Santità, lei è un vero maestro, scia come una rondine”, “Gli italiani sono fortunati ad avere un presidente come lei” – coperte da punte incontrollate di misticismo ideologico. Ma tanto di questi tempi basta poco per suscitare consensi vivissimi.