Senza piedi né testa: un corpo slacciato, e perduto nel labirinto dei tatuaggi tribali del suo allenatore. Ecco l’Argentina, brutta e sporca e per niente cattiva. Distratta, molle, e sul punto di crollare. L’espressione di un’equazione senza risultato, come cantava Francesco Guccini. La situazione della Selecciòn è così assurda e ingarbugliata che nemmeno Albert Einstein ne verrebbe a capo, così surreale da sembrare un racconto di Roberto Fontanarrosa: con lo spy-audio di Diego Simeone – mandato in onda dal programma radio spagnolo “El Transistor” di Onda Cero – che dice al suo secondo German Burgos: la situazione è disperata ma non seria; gli attacchi a Messi: da onnipresente a invisibile; la perdita di credibilità di Sampaoli; gli errori in campo e fuori e nelle teste dei calciatori; e su tutto questo: la leggenda che non tramonta di Diego Maradona. L’ultimo Sole dell’Avvenire calcistico che proprio in Russia – in ogni stadio – trova ovazioni, canti e nuova vita, mentre sotto l’Argentina piange e fa piangere. Jorge Luis Sampaoli, primo e secondo nome da guida nel buio – sì, ricorda Jorge Luis Borges –, un suffisso che dava sicurezza, si è rivelato un bluff, forte della vittoria col Cile in Copa América, apparecchiata dal suo maestro Marcelo Bielsa – maluccio con la Selecciòn, però – e con un bonus di fortuna esaurito, arrivato rocambolescamente sulla panchina dell’Argentina, che se guardiamo dal dopo Maradona nel falò dei coach troviamo: Sergio Batista, Alejandro Sabella – che riporta la squadra in finale al mondiale 2014, dopo 24 anni –, Gerardo Martino, Edgardo Bauza e infine Sampaoli. Cinque in otto anni, e senza mai riuscire a vincere, con l’imbarazzo della scelta in molti ruoli, e con Lionel Messi in mezzo. Ecco lì nel mezzo c’è buona parte della grandezza e dei problemi, Sampaoli dopo il tre a zero della Croazia di Modrić, ha detto che non è riuscito a trovare un sistema per valorizzare le qualità di Messi, proprio nel giorno che Sergio Ramos lo incoronava al di sopra di Ronaldo – da un po’ di tempo lo ha superato, per rendimento, Champions, centralità – e soprattutto su Maradona che sarebbe lontano anni luce dal calciatore del Barcellona. La risposta è in campo anche se pure il vento aveva detto la sua. Una dichiarazione forte, da quello che è di fatto un reuccio di Spagna, che però non ha fatto bene a Messi che più dei proclami ha bisogno di centrocampisti capaci di rifare la cameretta dove gioca a Barcellona. L’unica certezza in questi anni di dimissioni dalla Selecciòn – sì, Messi aveva detto addio dopo un rigore sbagliato in finale di Copa América Centenario, i rigori non sono il suo forte, almeno in nazionale, ha sbagliato anche contro l’Islanda – di piccole glorie, tanti dribbling, diversi gol, è che Messi gioca bene quando ha di fianco Ángel Di María, che stranamente Sampaoli non ha schierato, come ricordava anche Simeone che sembra essere il Don Giovanni di Mozart con trasposizioni audio, mentre inveisce contro l’anarchia dei calciatori, la poca reattività del portiere Caballero – se in porta ci fossi io sarebbe lo stesso, ha detto Mourinho – e ridimensiona Messi. Alla disorganizzazione federale, all’improvvisazione di Sampaoli – subentrato in corsa durante le qualificazioni – che non è mai riuscito a plasmare la squadra, a farla sua, poi c’è il pressing freudiano su Messi, stretto da Maradona su un lato, e dai gol e dall’esuberanza di Cristiano Ronaldo sull’altro, e con una nazione pallonara sdraiata ai suoi piedi, dove non tutti vogliono abbracciarlo, come abbiamo visto fuori e dentro al campo: gli argentini non sanno perdere, soprattutto perché sulla carta appaiono quasi sempre i migliori, poi però vanno in campo, escono dal racconto ed entrano nella realtà. Quella molto confusa del post partita che vedeva correre il nome di un altro Jorge Luis, questa volta però: Burruchaga, come sostituto di Sampaoli, che, invece, resterà al suo posto, per ora. Il problema argentino, ha diverse radici, a cominciare dal fatto che le selezioni giovanili non vincono nulla dal 2007, in Canada, con Di María, Agüero, Mercado, Fazio, Banega; poi c’è l’organizzazione dei campionati e la crisi economica; la formazione degli allenatori – la strada non supplisce più come una volta, né ci sono giovani allenatori come Marcelo Bielsa che mise in piedi il primo vero censimento dei calciatori argentini giovani che valeva la pena avere in squadra (citofonare Pochettino); poi c’è l’illusione delle finali: al mondiale e nella Copa América, che ha coperto e bene l’assenza di gioco, c’erano tanti singoli a risolvere, con Messi arma segreta, che come ha sportivamente chiosato Modrić: “Non può fare tutto da solo”. Che riflette in pieno la sostituzione tra Messia e progetto. Una illusione. Anche perché Messi è stato educato a un gioco collettivo a differenza del “tiranno” Maradona. Ci sono differenze caratteriali e comportamentali, c’è uno scarto incolmabile non tanto nei piedi quanto nei pensieri: Maradona entrava con lo sguardo alto, Messi ha sempre la testa bassa, nel corpo c’è il peso. Poi, venuta meno anche la leadership di Mascherano, che faceva da gladiatore in asse diarchico con Messi imperatore di fantasia, c’è stata la caduta, con intorno tanti talenti inconciliabili e sempre con un problema tra i pali, tutto questo hanno fatto sembrare gli allenatori delle caricature, Sampaoli lo sta scontando mettendoci del suo, come ha detto duramente Osvaldo Ardiles: “Il piano A è palla a Messi e speriamo in un miracolo. Nessun altro piano. Solo insulti ai croati”, e se si pensa all’immagine di persone come Menotti e Bilardo: cadono le braccia. Soprattutto il primo fu una alleanza tra marmo e gloria, pensiero e organizzazione, che rifondò il calcio argentino trasformando una festa di girovaghi al tramonto in una squadra.
[uscito su IL MATTINO]
[…] Occhi al cielo in cerca di Dio e sguardo al passato, quando c’erano l’uomo e la squadra forte. Argentina, Colombia, Uruguay e Brasile. Con un discorso a parte per il Messico. Fifa: abbiamo un problema. Se […]