Tutta colpa di Edmondo De Amicis e del suo racconto “Dagli Appennini alle Ande”, dove c’era un ragazzo che aveva la mia età e il mio stesso nome e si imbarcava da Genova per Buenos Aires alla ricerca di sua madre. Sono cresciuto con De Amicis che, con i vaccini e la comunione, era tra le cose inevitabili – per fortuna –, anche se oggi fa pensare a Carlo Calenda e al suo aver recitato nello sceneggiato del nonno – Luigi Comencini – tratto dal libro “Cuore”. In pratica De Amicis mi diceva che con un buon motivo si poteva lasciare casa a tredici anni, e soprattutto andare veramente su quel mare che, crescendo di dimensione, diventava oceano e che era a portata di un dito sul mio mappamondo, bastava dare una spinta leggera alla palla che riproduceva la terra e zac: si era giù a Buenos Aires. Mi serviva solo il motivo, speravo che mia madre, che cambiava scuola ogni anno, venisse mandata in Argentina dal ministero e che poi toccasse a me andare a recuperarla con una grande nave. A completare l’ossessione arrivò il cartone animato tratto dal racconto che dal Giappone sovrascriveva le immagini che la mia immaginazione aveva cucito. Era fatta, anche i bambini giapponesi volevano andare a Buenos Aires, un sogno comune alla mia generazione, e invece ho dovuto aspettare altri quindici anni per andarci in aeroplano e venti per andarci in nave, più altre volte in aeroplano per raccontare calciatori, scrittori, politici, musicisti. Alla fine la città, proprio come sognavo da bambino, è divenuta familiare: conosco i quartieri, ho dormito in moltissime case, sono stato a leggere nei suoi parchi, a vedere ballare Pablo Verón, sono stato nei tanti stadi della città: dalla Bombonera al
Monumental, fino ai campi più infimi, e sempre mi sono divertito; l’ho vista durante una crisi economica che sembrava dovesse seppellirla, durante i sequestri lampo della polizia, l’ho vista rinascere e morire tante di quelle volte che ora so che è immortale, conosco la biblioteca e il bar di Jorge Luis Borges: dove andavo a leggere e scrivere sperando che un po’ di quella magia mi rimanesse appiccicata alle dita, conosco tante librerie e mercati dell’usato dove ho trovato libri originali tradotti nella nostra lingua e altri che forse non verranno mai tradotti, conosco l’ippodromo dove ho visto i cavalli più belli del mondo che però ogni volta non erano quelli sui quali avevo puntato, conosco i tassisti e i bus, e le metropolitane, dove ho discusso di pallone e soprattutto di Maradona, conosco molti locali – alcuni appartenuti a terroristi italiani dove sono andato a guardarli in faccia –: bar, ristoranti, caffè, club, dove ho conosciuto musicisti e donne; conosco molte case di scrittori e qualcuna di politici importanti, conosco le chiese e la sinagoga, e due dei cimiteri dove sono sepolti scrittori che in questi anni si sono sommati al desiderio generato da De Amicis, ovvio sono andato anche sulla tomba di Evita e su quella di Carlitos Gardel, come sono andato all’Esma (Escuela Superior de Mecánica de la Armada) dove il dittatore Videla fece torturare più di cinquemila persone; e al porto e al museo dell’emigrazione, forme diverse di dolore con alla base lo sradicamento che oggi non riconosciamo negli altri. Alla fine Baires mi è così cara che ogni volta che il lavoro va male, che le cose non mi piacciono, che la vita mi costringe a ripiegare: mi consola come se fosse una persona, mi rimanda i giorni contenti, e il fatto che mi abbia insegnato un’altra lingua senza mai averla veramente studiata, quasi solo attraversando le sue strade e cercando di conoscerla, e mi ha costretto a leggerla nei romanzi di una letteratura fantastica, ancora oggi, che sono cresciuto, un racconto di Adolfo Bioy Casares – “Trama celeste” rimane il mio preferito; poi, certo, senza Osvaldo Soriano non racconterei
il calcio; senza Julio Cortázar non avrei mai scritto un racconto, nemmeno questo; senza Rodrigo Fresán non avrei capito che i Beatles stanno bene su tutto; senza Roberto Fontanarrosa non sarei riuscito a immaginare un campo di pallone dentro a un vulcano; senza Manuel Puig non farei il gioco che faccio sempre con gli attori famosi in ogni mia storia; senza Tomás Eloy Martínez non avrei capito come si può e si deve raccontare quello che non ci piace e che non capiamo finendo per amarlo e capirlo; senza Rodolfo Walsh mi sarebbe già passata l’apertura politica alla fantasia; senza Juan Rodolfo Wilcock non mi sarei mai messo a giocare con le inesistenze; senza Mempo Giardinelli non avrei scoperto dove potevano continuare le storie cominciate da De Amicis; senza Marco Denevi non avrei mai saputo ridere del dolore; senza Héctor Oesterheld e Francisco Solano López non avrei capito che i fumetti spesso sono migliori dei libri; senza Osvaldo Bayer non avrei conosciuto né così bene la Patagonia né la storia di Severino Di Giovanni; senza Roberto Arlt non mi sarei perso di proposito cercando quello che raccontava; e senza tanto Borges non mi tornerebbe sempre la voglia di rimettermi in viaggio sapendo che, anche se fosse l’ultima, tornerò ancora una volta con un sorriso più grande. Perché Buenos Aires è un sogno fatto da ragazzino.
Foto di Maria Vittoria Trovato
[uscito su IL MATTINO]