Camilla Cederna, l’altra: donna, coscienza, giornalista, città, bellezza, intelligenza. Un mondo a parte, quello di Camilla. Beautiful e Pinelli. Jeans e salotti. Gran classe e cortei. Spietata cronaca e pettegolezzi. «Trattare con serietà le cose frivole e con leggerezza le cose gravi», uno dei suoi segreti; ma anche saper ascoltare tutti. Sullo sfondo, Milano: la sua città, la moda, il boom, la mondanità; borghesia e proletariato; e poi la politica, gli scontri, le bombe, le stragi, gli assassini di stato, le botte in questura, i morti. Passò attraverso gli anni più bui della nostra Repubblica e raccontò molte di quelle storie, ne intuì le trame, denunciò i complotti, pagò il suo saper indagare e giudicare, la sua capacità di raccontare i fatti, fare cronaca, svelando le illogicità, le enormi bugie, ma anche i tic, i piaceri, le mode. Se Gian Maria Volonté ha rappresentato il nostro carattere, lei lo ha stanato e catalogato con la scrittura. Con un suo libro su Giovanni Leone, “La carriera di un presidente”, fece dimettere l’allora capo della Repubblica. Il libro fu un successo, lei, dopo, fu condannata – per diffamazione – e costretta a vendere i gioielli di famiglia per pagare i danni, «ne valeva la pena». Univa l’occhio e il respiro della scrittrice alla meticolosa ricerca dei particolari, dei riferimenti, delle sfumature col passo da saggista. Giudizi sferzanti e dolcezza, sensibilità, comprensione. Due carriere, la prima come critica del costume, la seconda come militante della verità negli anni di piombo, in entrambe è stata tremendamente capace, facendo scuola. La prima comincia il 7 settembre del 1943 con un pezzo pubblicato su “Il pomeriggio” edizione pomeridiana del “Corriere della sera”, “la moda nera” si chiamava, le costò l’arresto e la prigione nel carcere di Sondrio, un processo al Tribunale Speciale, una condanna non scontata a sette anni di galera. «La cappa del fascismo ci pesava addosso da tempo; e nonostante la mia frivolezza (tentare di imparare il bridge che non mi entrò mai in testa, andare a sciare), capivo che con i suoi gerarchi, la sua mania di grandezza, la conquista dell’Impero, il duce sarebbe stato capace di tutto. Se mi chiedete se la guerra ha significato una scelta definitiva per la mia vita, direi di sì. Mi è scattato dentro, come spesso da allora, il meccanismo dell’indignazione e d’improvviso è uscito allo scoperto». La seconda comincia la sera del 15 dicembre del 1969, lei è una firma prestigiosa dell’Espresso (che allora usciva in formato lenzuolo), quando Giampaolo Pansa e Corrado Stajano le telefonano: «trovati sotto casa tra cinque minuti, un uomo si è buttato da una finestra della questura, non farci aspettare, andiamo a dare un’occhiata». L’uomo era il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli e non si era lanciato di sua spontanea volontà. Quella storia le entra nell’animo, ne divenne la scomoda puntigliosa cronista, stupendo il suo ambiente e il paese. Quattro giorni prima a Milano, in Piazza Fontana una bomba era esplosa nella banca dell’Agricoltura causando 17 morti e 85 feriti. L’Italia repubblicana perde il candore, forse mai avuto, visto che molti funzionari della polizia erano gli stessi che avevano prestato servizio anche durante il “ventennio”, comincia una pagina oscura, melmosa, e ancora irrisolta della nostra storia. Naturalmente dovevano essere stati gli anarchici a mettere la bomba, senza prove o motivi, bisognava avere un colpevole, mica si poteva parlare di “strage fascista”. Il commissario che operò il fermo di Pinelli e che (forse) lo interrogò quella notte era Luigi Calabresi (la Cederna ne fece un ritratto spietato), che poi verrà ucciso da un killer il 17 maggio del 1972. Anni dopo Leonardo Marino, ex militante di Lotta Continua, accusò Ovidio Bompressi di essere il killer, e Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri di essere i mandanti di quell’omicidio, sulla sua unica testimonianza verranno condannati a 22 anni di carcere. Oggi è facile darle ragione leggendola, non lo fu nel suo presente. Avere ragione da sola, contro una città, uno stato; da donna, agiata, colta, negli anni Settanta, non era affatto semplice e soprattutto non era normale. Ma lei, la sua leggerezza, la stessa che la portava a scrivere con disinvoltura di argomenti lontanissimi, ebbero la meglio. Processata, querelata, condannata, derisa, offesa dai giornali di destra, delusa da quelli di sinistra, tenne duro. In molti hanno visto in lei una perdente, non è affatto così, non ha scritto dall’alto delle sue sconfitte, ma dal lato giusto della storia. Lei ha difeso la vita, il nome, la memoria di molti innocenti a cominciare da Giuseppe Pinelli e da Pietro Valpreda, passando per Giangiacomo Feltrinelli fino a Giorgiana Masi. Ma anche Saverio Saltarelli, Giuseppe Tavecchio, Franco Segantini, Roberto Franceschi, storie che finiranno nel volume “Sparare a vista: come la polizia del regime DC mantiene l’ordine pubblico”. Un esercito di caduti ingiustamente – omicidi di stato, processi iniqui, accuse ingiustificate – diffamati, maltrattati, usati. E il suo agire non fu una folgorazione dovuta «all’afrore delle ascelle dei metalmeccanici» come scrisse Indro Montanelli (sbagliava e di grosso pure lui) ma da un gesto alto di indignazione. I suoi scritti sono stati un urlo, un esempio di libertà, una diversa possibilità di intendere la giustizia. Ma Camilla Cederna è stata anche altro, la sua è una vita lunga, piena, movimentata, vissuta con autoironia. Oltre a raccontare la provincia italiana (nuovi ricchi, potenti, è anche fra le prime a capire la realtà della mafia e a denunciarne la pericolosità), viaggia molto per il mondo. Nel 1958 è in Algeria per il processo di Yacef Saadi. Nel 1963 conosce John F. Kennedy e intervista il fratello Bob, tornerà diverse volte negli Stati Uniti. Due anni dopo è in Cina, scrive del modo di vivere e del carattere del popolo cinese. Poi è la volta della Germania e di una inchiesta sulla destra intellettuale tedesca, intervista ex ufficiali delle SS e lo scrittore Armin Mohler, poi arriva fino in Grecia in quegli anni sotto il regime dei colonnelli. Indimenticabili i suoi ritratti: Toscanini, Benedetti Michelangeli, Eugenio Montale, Giancarlo Fusco, Gaetano Afeltra, Federico Fellini che fu anche un assiduo frequentatore di casa sua, dove, fra i suoi gatti, nacque
“Giulietta degli spiriti”. La potevi incontrare in una pagina di Alberto Savinio, in un salotto, dal parrucchiere (mai vista in giro spettinata o vestita male), leggere il suo nome in testa a una delle tante spiritose rubriche, trovarla per strada, e l’impressione era sempre la stessa: raffinata signora bene, anche se “Il borghese” la riteneva un “carogna”. Famiglia agiata, padre chimico industriale, la madre Ersilia Gabba, invece, apparteneva a una famiglia milanese importante. Studiò al liceo Parini, crocerossina, laurea in lettere alla Statale. Un amore per Dino Buzzati, cotta dal suo “Deserto dei Tartari”, ma lui fu fermo nella rinuncia, non si poteva innamorare di una ragazza così, troppo bella, troppo perbene. «Quelli che volevano sposarmi io non li volevo, anzi capitava una cosa strana. Al minimo contatto fisico, subito mi veniva il palato secco. Succedeva soltanto con quelli che volevano sposarmi. A me piacevano magari altri, che non mi volevano o potevano sposare». Viveva con una “pensione da giornalista strafallita” quando Oriana Fallaci le chiese mezzo miliardo di danni per un articolo: “Madame Veleno e i calzini di Panagulis”. Impossibile non stare dalla parte di Camilla, «se ho schizzato tanto veleno l’ho sempre fatto a fin di bene», come darle torto?
[uscito su IL MATTINO, ottobre 2005]