Non c’è sfogo, non c’è retorica, e nemmeno un’illusione. C’è che Diego Armando è tutti e non tutti sono lui, anche se ci piacerebbe, c’è che Maradona è una confluenza come l’incontro del Tigri con l’Eufrate, c’è che è stato capace di attraversare molto, onestà e disonestà, mostrando che entrambe hanno una ragione, e di illuminare povertà, ricchezze, vanità, quante volte figlio mio, molte padre, ogni volta che ho potuto. C’è che la vita va storta, come i dribbling, e a certe finte finisci per crederci anche tu, poi ti tuffi e scopri che il mare del tempo è una superficie dura, che fa male, che gli specchi sono tremendi, nella loro mancanza di fantasia. Carnera, Jesse Owens, Coppi, Bartali, Pelé, Clay-Ali, Best, Cruijff, Maradona; perché i campioni dello sport sono l’edera intrecciata alla nostra vita e noi continuiamo a scrivere le nostre iniziali su quel tronco? Cosa hanno di così universale e di così amichevole che sembrano gente di famiglia, anche quando non lo sono, e non lo potrebbero essere? Il fatto di sedurci con la loro terribile diversità ci fa perdere quella giusta distanza, che a volte è solo paura, perché ogni abisso ha le sue vertigini, perché è vero, in uno slalom intravedi una fuga genealogica, la voglia di scansare le insidie, in fondo sono solo birilli e non dna in attesa di fissa dimora. Premetto: con Marco Ciriello ho viaggiato, ho condiviso parole, paure e refusi, ore e giorni in attesa di Maradona, dei suoi risvegli, dei suoi rantoli, dei suoi miracoli in ciabatte. Perché è chiaro che uno fuori dal coro non è stonato, e la sua melodia è una via dei canti che può essere celestiale o sotterranea, ma sempre sopra le righe. Ribelle. E quando non ho viaggiato (soffro il mal di mare anche in altalena) ho spinto Marco perché da mozzo attraversasse l’oceano su un cargo: la linea d’ombra di Conrad la capisci meglio se prima hai visto il nero delle onde atlantiche sollevarsi contro di te. Maradona è stato il confine su cui ci siamo arrampicati insieme, su cui siamo scivolati, su cui abbiamo piantato bandiera, su cui siamo saliti e scesi, aggrappandoci alle fessure, misurando il vento della storia, l’altezza della gloria, la circonferenza della fama. Un confine che non stava mai fermo, che si spostava sempre, invadeva altre terre, altri bisogni, altre aree, libertà vo’ cercando. Andare dietro a Maradona significava correre per il mondo, inseguirlo nei vicoli di Napoli, sbucare a Cuba, evitare e sorvolare una barriera fatta da Evita, Gardel, Che Guevara, sbagliare rotta, musica, letteratura, correggere traiettorie, drogarsi di illusioni o forse di speranze, benedire e maledire il giorno in cui l’avevamo incontrato. Maradona era tanto, era troppo, era tutto. Non stava mai zitto, voleva guerre, pretendeva scalpi. E non ci lasciava mai, tornava sempre alla ribalta, voleva attenzione, ottenendo obbedienza, ma anche l’insofferenza dei paggi a ogni cambio di mantello e di reame. Entrava e usciva dai suoi esili, magari più lento, più letargico, però sempre polemico, sempre controvento, perché chiaro che quella era la sfida, tuffarsi, segnare, restare in piedi. E chiaro anche che lui non era la tempesta perfetta. Marco è stato bravo a resistere alle finte (vere) di Diego, alle parole consumate, ai cambi di direzione, si è incollato a Maradona più di Gentile in Spagna, però lo ha lasciato libero di andare, come si fa con gli amici, di cui rispetti le destinazioni anche se non sono le tue. E questo non è un libro su Diego Armando ma su quello che lo sport riesce a dire quando si àncora alle nostre vite, quando le fa annegare e resuscitare, quando le cronometra, facendo finta che le lancette siano in mano nostra, e le misura, come il segno sui muri, come un sarto che restringe e allarga, scorcia e allunga. È il racconto di un dolore, di una differenza e non indifferenza, perché non tutti sono Flaubert, e Maradona ha fatto vincere molti e poi ha perso solo lui, ma intanto a forza di inseguire Moby Dick, e quel colpo di pinna mancino, anche noi abbiamo arpionato mari, solitudini, esistenze, e ci siamo confrontati con tutto quello che c’era sopra, sotto, attorno, con quello che credevamo un abisso, per sentirci draghi e poi alla fine solo stanchi. I cordoni ombelicali da grandi sono immagini in differita, e non si sa se quel filo che ci lega è una salvezza che ci tiene attaccati alla navicella o un cappio che ci impedisce di fluttuare liberi nello spazio. L’orbita di Maradona assorbe, sono giri concentrici che risucchiano, frantumano, espellono, Marte è lontano, la Terra anche. Scrivere significa togliersi il casco e la tuta, uscire dalla traiettoria, non arrivarci più alla palla con il carro di Diego, sulla sua Via Lattea, ma trovare il proprio modo di giocare. Va bene così, Maradona è amico nostro.