Un po’ Marguerite Yourcenar, con le “Memorie di Adriano”, un po’ album di famiglia, quella del tennis, compilato da Panatta con Daniele Azzolini, con sincerità e molta ironia, concludendo con due grandi foto di gruppo: i migliori e le migliori 40. Perché “Il tennis è musica” (Sperling & Kupfer) è anche un modo di fare i conti col proprio sport, ricordare quelli che se ne sono andati e quelli che ancora giocano, quelli che hanno allargato il campo e quelli che l’hanno ristretto, con la leggerezza romana che Panatta ha allenato e amplificato frequentando quella singolarissima di Paolo Villaggio. E, infatti, Adriano alterna, il modo di stare al mondo e in campo, partendo dal metodo australiano, che aveva appreso allenandosi a Sydney e a Brisbane, nel 1969, conoscendo e giocando con Rod Laver, John Newcombe, Tony Roche e Ken Rosewall: «Bei tipi, serissimi quando impugnavano la racchetta, poi sempre rilassati e in pace con se stessi [..] dove c’era spazio per tutto, cazzate comprese, a patto di essere chiari con se stessi e di fare bene ciò che si era convinti di fare». Panatta racconta e commenta, e tira fuori il bello del tennis, l’avere protagonisti enormi, molto lontani dai calciatori, uomini e donne che hanno lingua e mondo, che hanno idee e visioni, e non hanno paura di nasconderle. Tennisti come Ilie Năstase – al quale Panatta è molto legato al punto di avere un modo di dire prima di litigare: «Guerra totale» – che nel suo romanzo scrive quello che aveva applicato nei suoi anni di tennis: «Come si può vincere senza voler uccidere l’avversario?», uno capace di battere Arthur Ashe agli Us Open, ma di non riuscire a vincere mai Wimbledon (con due finali raggiunte) e che lo portò a dichiarare: «L’erba è buona solo per le mucche». E c’era chi a Wimbledon metteva in fila tennisti, uno come Björn Borg, un grande, sesto nella classifica Panatta, uno che lui faceva disperare facendogli perdere il filo del suo infinito palleggio, un vanto, e anche un amico da aiutare sia quando si trova davanti i corpi del giudice Terranova e del maresciallo Mancuso a Palermo nel ’79, sia quando decise di tornare a giocare, ma tutto era cambiato, e Borg si ostinava ad affidarsi a dei coach-guru, allora Panatta all’ennesima guida presentata come «un grande esperto di discipline shiatsu», rispose col pragmatismo sordiano: «Me’ cojoni». Gioca molto Adriano, anche se non perde occasione per spiegare gli snodi, i passaggi importanti gli errori e i difetti, raccontando i grandissimi – in cima mette Federer s’intende – anche se le cose divertenti vengono da ragazzi come Vitas “Broadway” Gerulaitis uno sperperatore, «ogni volée sbagliata veniva addebitata a quella o quell’altra donna con cui Vitas era stato visto la sera prima», interprete però del tennis gioioso degli anni settanta, che non è più tornato. Poi c’era «McEnroe un pazzo che credeva di essere John McEnroe» uno che «Tocchettava, smistava, accelerava d’improvviso e piombava a rete per vollerare con naturale eccentricità, tenendo la racchetta fra le dita come un cucchiaino da the». Tra le donne la classifica stilata sul suo taccuino personale di Panatta, come avrebbe detto Rino Tommasi, vede l’aliena Serena Williams, al primo posto, Steffi Graf al secondo e poi terza ma con molto onore: «Martina Navrátilová, quella che arrivava ovunque: non credo di aver più visto una donna giocare come lei. Mancina, rovescio a una mano da manuale, aveva una sensibilità nei colpi a rete, nella scelta delle traiettorie d’attacco che facevano apparire naturali anche le conclusioni più azzardate. La demi-volée aveva una grazia tutta sua, l’approccio in back con il rovescio era una lama affilata, e finché fu sorretta dalla forza fisica le strade per il passante erano inevitabilmente chiuse». Ma c’è anche spazio per giocare con gli urletti di Monica Seles e le mutande di Steffi Graf. È impossibile metterci tutte le partite raccontate e i tennisti analizzati, si può solo esaltare la capacità di saperlo fare di Panatta e Azzolini, tra particolari tecnici e tracce d’umanità.
[uscito su IL MATTINO]
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