Scelta da “Time” come la partita più bella della storia del calcio, Italia – Brasile del 1982 – come tutto quel mondiale, che gronda epica – continua a farsi raccontare, a richiedere piccoli Omero che ne fanno Iliade. Uno dei primi a capirlo fu – ovviamente – Pier Vittorio Tondelli con “Dinner party”, poi vennero i singoli racconti dei calciatori, poi i romanzetti italiani che ci mettevano l’urlo di Tardelli, dopo i monologhi come quelli di Davide Enia e ora arriva Piero Trellini con “La partita” (Mondadori) che prorompe, allarga, spiega, connette, andando a trovare l’inverosimile, cercando di farne una opera wallaciana, ma gli manca la scrittura non il coraggio, e proprio per il suo coraggio il libro merita di essere letto, perché c’è uno sforzo enorme e molta bellezza. Zeppo di parentesi come note al largo della partita, microstorie, flashback, rimandi e cuciture, ci sono biografie e salti temporali, spiegoni politici – sia per il Brasile della dittatura che per la Spagna franchista e post, e non manca la serie italianissima sulla P2 –; c’è la nascita dell’Adidas e della Puma e come influenzeranno – soprattutto la prima – la Fifa di Havelange; c’è un arbitro con una storia da film: l’israeliano Abraham Klein; c’è la guerra – bellissima – tra Gianni Brera e Giovanni Arpino; c’è il giovane e già bravo Darwin Pastorin: un cuore allegro diviso a metà tra i due paesi, complice la sua storia familiare; c’è lo scontro tra i giornalisti italiani e il CT della Nazionale Enzo Bearzot – vera e propria telenovela; ci sono i calciatori brasiliani con le loro storie serpigne tra povertà e sogno; e poi c’è Paolo Rossi che è il più bel romanzo italiano degli ultimi quarant’anni, ha tutto: caduta, umiliazione, emarginazione e forza, e, infine, luce, tanta, pure troppa se la si guarda da Rio de Janeiro, e anche gol quando nessuno li aspettava più, i suoi tre a quel Brasile sono tre scene madri, in una Italia che sembrava dovesse avere una parte da figlia in quella partita e in quel mondiale, poi si prese tutto, ribaltando partite, racconti e previsioni. Trellini ha fatto un lavorone, ma purtroppo usa “Belpaese” al posto di Italia e questo avrebbe fatto incazzare non poco Aldo Buzzi, chiama lo stadio “catino”, e ci ricorda che “il calcio è metafora della vita”, da uno che scrive un libro di seicento e fischia pagine ci saremmo aspettati una attenzione maggiore per la lingua, poi, ovvio, la storia travolge e noi appariamo come breriani che la menano sulle parole; l’altro difettissimo e che a un certo punto il lettore è costretto a chiedersi se anche Mario Sconcerti abbia giocato la partita, perché è il pur bravo giornalista – che allora dirigeva lo sport della neonata Repubblica scalfariana – a scandire i passaggi chiave, sovrastando persino Brera, sicuramente Trellini ha visto in lui una chiave, un maestro, uno sguardo che collimava col suo, ma c’è una sproporzione tra il peso di Sconcerti e quello di Paolo Rossi. Poi c’è tanta bellezza sparsa, quasi sperperata, al punto che Trellini dedica più tempo alla ricerca del DC9 di Sandro Pertini che alla partita-svolta prima del Brasile, quella con l’Argentina, dove l’Italia di Bearzot cominciò a mutare forma, tattica e sostanza. Insomma, un librone che si perde e torna, che pare smagliarsi allargando a dismisura quello che c’era intorno alla partita ma che poi torna e regala molti dettagli perduti. Trellini è più detective che scrittore, più speleologo che giornalista, forse con qualche taglio di pagine il lettore non arriverebbe sfinito alla partita, così sembra di giocarla.
[uscito su IL MATTINO]