Un albero genealogico oscuro e infestato, ecco “Il volontario” (66thand2nd, traduzione di Michele Martino) di Salvatore Scibona, scrittore italo-americano con sulle spalle il difficile compito – affidatogli dalla critica americana – d’essere la continuazione naturale di Don DeLillo. E, consciamente o inconsciamente, il suo secondo romanzo – dopo “La fine” (2010) – sembra smarcarsi anche da questa eredità, lavora sull’Io, su quello che c’è prima e dopo i nomi, le famiglie, in uno scavo identitario nel maschio americano. Ma tranquilli non è una seduta di psicanalisi, no, Scibona mescola letteratura e cinema, azione e riflessione, bordeggia abbandono e senso di responsabilità senza l’investitura epica di Cormac McCarthy, ma giocando a scovare le ambiguità, a puntellare le occasioni mancate, minando il machismo americano: abbiamo due sergenti, due reduci, uno dal Vietnam e uno dall’Afghanistan, due guerre diverse, con due ritorni differenti in patria, e un problema comune: la gestione del sé e della paternità, che diventa una roulette russa che al posto della faccia-Munch che aveva Christopher Walken ne “Il cacciatore” assume quella sfuggente delle spalle voltate davanti agli spari, della fuga con disonore. Si comincia ad Amburgo con un bambino abbandonato – come in un vecchio racconto di Scibona – Janis, figlio di Elroy Heflin – il reduce dall’Afghanistan – che non parla inglese né tedesco e aspetta diligente come un soldato che il padre torni a riprenderselo, la sua sembra una missione, senza tradimenti, senza nomi, senza denunce. Su loro si allunga l’ombra di rimorsi e ambiguità di Vollie Frade – il sergente di squadra reduce da tre turni di Vietnam – padre adottivo di Elroy Heflin e nonno adottivo di Janis. Dopo una missione molto Oliver Stone, Frade viene avvicinato da Lorch, personaggio luciferino e pynchoniano, che ha un linguaggio oscillante tra l’impiegatizio e il religioso – c’è sempre una citazione dalla Bibbia a coprire gli scambi verbali – che gestisce una “compagnia” parastatale capace di ripulire le vite dei reduci che non vogliono più tornare a casa o vogliono approfittare per svoltare, cambiando identità, così Frade diventa Dwight Tilly, da eroe torna “nessuno” facendosi Odisseo. Da questa scelta di “non essere” scaturirà tutto, con una esecuzione, una comune hippy, molte discussioni che sono di fatto giudizi sulla storia americana che conosciamo bene esteticamente – via Hollywood – e che Scibona si prende la briga di sezionare per farci vedere quello che rimane dentro gli uomini dopo le esportazioni di democrazia. È come se avesse mappato le viltà che stanno sotto il bisogno della frontiera, dicendoci che dietro lo sceriffo prima, il sergente poi e il presidente ora: c’è un impulso – animalesco – di fuga, che la guerra copre, in alcuni sublima, ma che poi riemerge e consuma, e dal west ai villaggi vietnamiti passando per le montagne afghane arriva al sogno di Warhol: dell’uomo che si specchia senza trovarsi.
[uscito su IL MESSAGGERO]