Sotto, le luci della città erano linee ondeggianti: Lionel Messi guardò fuori e cercò il vulcano, poi le isole, muto cercava punti di riferimento. Suo padre, di fianco, dormiva. La prima volta era venuto con il Barcellona per una partita di Champions League e aveva capito che quel posto era il suo destino, poi si era ricordato di Roberto, un amico di Rosario, compagno di squadra al Newell’s che gli raccontava la città telegrafata da suo nonno; il resto era già scritto, e poi gli era stato ribadito in uno scambio a Dubai avuto il Natale prima con Diego Maradona. Contro tutti, Lionel, aveva preso quella decisione. A Barcellona c’erano stati – oltre le polemiche – dei suicidi, dopo l’annuncio dell’impensabile. Messi no se va! la scritta era apparsa ovunque, dalle maglie alle facce, poi, con l’annuncio, quelli con più ironia avevano barrato il no e tenuto le maglie come si tiene la foto della donna amata strappandole le braccia che la stringevano. La storia si ripeteva, ma questa volta Barcellona era coperta dalle lacrime e con la gente per strada che protestava come per una decisione del WTO. Tivù e giornali avevano provato a spiegare e far ragionare, si era molto scritto delle possibilità di Neymar – ora senza tiranno – e il nuovo dirigente Iniesta –tornato dopo la parentesi ai Cosmos – aveva tenuto un comizio per riannodare cuore e squadra, ma la partenza di Messi stava incrinando persino il sogno catalano. Una catastrofe, e niente era bastato né il videomessaggio del calciatore, né la sua lettera, né le numerose interviste rilasciate dai suoi familiari, né la comprensione dei compagni, figuriamoci le parole di Maradona che ne giustificavano la scelta. Un disastro, l’intera Catalogna si era fermata: uffici, scuole e negozi chiusi come per un terremoto, ma senza macerie. Messi aveva lasciato in elicottero Barcellona dopo la conferenza stampa che ribadiva quello che si diceva da mesi e che in tanti anni nessuno aveva creduto possibile. Le sue dichiarazioni erano andate a reti unificate in Spagna e trasmesse in 156 paesi come e più di una dichiarazione di guerra del presidente degli Stati Uniti. Con la consueta indolenza, ringraziava città e squadra, compagni e allenatori, dirigenti e magazzinieri, ripercorrendo la sua vita e le cure avute, ma non motivando l’abbandono. Ai tanti «Perché?» che piovevano, mentre veniva scortato sul tetto e messo sull’elicottero, aveva blaterato un «Non lo so, mi annoiavo», ma le registrazioni sono confuse e non si capisce distintamente se lo dica o meno, all’ala del tifo più aristocratica sembrava solo uno sbadiglio; per quella più popolare si leggeva il disprezzo per le gloriose idee della nazione Catalogna. Né l’una, né l’altra, dopo la mancata qualificazione della nazionale Argentina al Mondiale, Messi aveva capito – a differenza di Mourinho – di aver bisogno di una nuova città e una nuova ragione, e un po’ il caso un po’ la sua vita e molto Maradona lo avevano portato a scegliere il Napoli. Per la seconda volta la storia si ripeteva. La città era esplosa, come a Barcellona tutto era bloccato ma senza lacrime, l’inviato di “El Pais” aveva scritto che le strade della città erano un immobile scomposto pranzo da “Gattopardo” che innestava in scene felliniane; Kusturica sorvolava e filmava la città da una settimana in attesa dell’arrivo di Leo; Piazza Plebiscito era diventata una gigantesca maglietta del Napoli con un altrettanto gigantesco numero dieci e la scritta Messi core ‘e Napule svettava sul tetto del Palazzo Reale come quella Hollywood a Los Angeles. A Capodichino – dove aveva preso ad allenarsi il Napoli – erano stati sospesi tutti i voli tranne quello del calciatore, il sindaco aveva dichiarato lo stato di festa permanente, e squadre di volontari stavano ristrutturando il San Paolo. Da giorni nessuno chiedeva il pizzo, nessuno veniva derubato né ammazzato, statue del presidente De Laurentiis avevano affiancato quelle di San Gennaro, Raffaele Cutolo aveva chiesto di poter essere all’aeroporto in cambio di ogni segreto possibile a cominciare dalle cartelle cliniche di Francesco Cossiga. Si era parlato di killer assoldati da Lapo Elkann ma la camorra aveva garantito una protezione da Nato. C’erano state 456 scosse di terremoto dovute ai cori e qualche crollo che però non aveva scalfito la festa, da quando era cominciata a circolare la notizia a Napoli nessuno più era morto, tutti prima volevano vedere Leo Messi palleggiare sulla pista di Capodichino. Mancava pochissimo, e mentre l’aeroplano scendeva lentamente dopo una leggera virata, lo stupore del calciatore argentino diventava incontenibile, certo aveva visto in tivù le scene dell’attesa, aveva letto i racconti che ne facevano i giornalisti, ma ora vedere Napoli convertirsi a lui, era tutta un’altra storia. Nemmeno a un papa o a i Beatles, o per Maradona era mai stato fatto tutto quello che si stava facendo per lui. Victor Hugo Morales per l’occasione si era trasferito a Napoli e dalla torre di comando dell’aeroporto – per la prima volta nella sua vita – teneva la radiocronaca dell’atterraggio di un aeroplano e non di un evento sportivo. C’erano telecamere ovunque, e un doppio esercito: quello dello stato italiano e quello della nuova camorra per Messi – una alleanza stipulata per la nuova ed eterna possibilità. Ad accoglierlo oltre la squadra e il presidente anche Diego Maradona vero artefice dell’operazione. Quando il portellone dell’aeroplano si aprì: tutta la città, i suoi muri, i suoi tombini e i suoi forni delle pizze, trattennero il fiato. L’attimo dopo sembrava che il Vesuvio avesse di nuovo seppellito Ercolano e Pompei.
[Tratto da “Il catenaccio mi sta antipatico”, 2017]
[…] appena saputo della sfida di Champions League abbia messo in rete un video con Diego Maradona e Lionel Messi che immaginificamente giocano con la stessa maglia dribblando il tempo. Ma il tempo di Maradona a Barcellona non è stato […]