Soldati: Lettere da Tellaro

La piccola baia è una stanza vuota. Il mare ci sguazza da padrone. Entra, esce. Si ritira e poi torna placido a scontrarsi. Sembra sul punto d’imbolare tutto, ma non lo fa. Avverte, fa sentire la sua voce, quella del bullo, padrone del posto. Con destrezza raggiunge le case che gli stanno a ridosso. Niente attracchi. Poche barchette, tirate su a mano, dormono capovolte a ridosso della battigia. Indifferenti al chiasso del mare. Attorno alla baia e lungo tutta la costa, spezzata solo da minuscole spiagge, sta una corona di scogli, schizzati di sale, consumati dal caldo, luccicano al sole. Arsi, attendono, vergini, che un’onda li sormonti, donando ristoro. In alto l’abside della chiesa, rubicondo, esce a picco sul mare. E, intorno, casette strette e lunghe, vivaci, si arrampicano come trapezisti in bilico sul promontorio. Tellaro è un borgo marinaro che si conserva bene. Frazione del comune di Lerici provincia di La Spezia. Un riccio  d’abitazioni attraversato da stradine di pietra. Cunicoli, e una galleria con vista mare: Sottoria, sotto riva. Mario Soldati è arrivato qua seguendo le tracce di D. H. Lawrence – che parlò dei polpi giganti di Tellaro e di un sentiero che lo legava a Lerici somigliante a quello dove il Nazareno passeggiava – alla fine lo ha spodestato e ci è rimasto. La sua casa è proprio in via Lawrence, e la coincidenza sta metà fra un cimelio di guerra e un atto d’amore. Davanti si apre il golfo dei poeti. «La baia è un due terzi di cerchio quasi perfetto…con la prospettiva delle linee convergenti e con il gioco delle quinte: a destra, dove all’orizzonte digradano, verso il centro, le alture di Portovenere, Palmaria, Tino, Tinetto – poi più vicino, con una quinta allungata, scogli che da una selvosa collinetta a forma di fiasco (da qui il nome Fiascherino) ripetono in primo piano quello stesso spezzato digradare; a sinistra invece, dove l’orizzonte è libero, con una quinta quasi a compensare il vuoto, più alta e più massiccia: rocce e sulle rocce un muraglione e sul muraglione un bosco. Noi siamo qui». Alle nostre spalle macchie d’ulivi, pini, frastagliate e rotte dalle nuove costruzioni. Barbari in ascesa, anche qui. Trent’anni fa un luogo sbalorditivo: mare, silenzio, poche persone: contadini e marinai, niente ossimori, la fame concilia ogni cosa. Oggi, pensionati che guardano sparire la scia delle loro barche. Gioia e malinconia. Sono tornati e stanno in attesa. Mescolati ai pochi abitanti, vecchi turisti stranieri in fuga dal freddo. È il luogo ideale per riflettere sul passato, compiacersi, recriminare, fare due conti con se stessi. «Amo Tellaro proprio per questo. È un posto che non si può attraversare. È un posto a cui si arriva. Un po’ alla fine, una delle fini del mondo. Si arriva e basta: si è arrivati. C’è un senso, unico, di calma e di chiusura». Barba, sigaro, bretelle e papillon. Eccolo Soldati, con il suo panama chiaro arrivare in piazzetta. Sembra di vederlo. Cercare un tavolo. Incontrare il poeta Attilio Bertolucci. Giocare a carte con tutti. Litigare, divertirsi, per una mano sbagliata. Raccontare di “When hope was named America”. Di quei suoi due anni statunitensi, della crisi del ’29, diventati poi  “America primo amore”. O di quando fuggiva per l’Italia con Steno, Dino De Laurentiis, Riccardo Freda – dopo l’otto settembre – per raggiungere Torella dei Lombardi dove il futuro produttore cinematografico aveva un rifugio sicuro. Di quando portò “il fascista” Leo Longanesi davanti a don Benedetto Croce per farlo assolvere. Chissà se raccontava agli amici al bar, gente semplice, il cinema da dentro come in “24 ore in uno studio cinematografico”, dei gesuiti de “La confessione”, della musica e delle paure de “La giacca verde”, oppure se burlava tutti con “La verità sul caso Motta”. «Ho visto con i miei occhi l’arcobaleno, anzi gli arcobaleni, ma non nel cielo, purtroppo: ho visto gli arcobaleni nel mare». Poteva irretirli con i “Racconti del maresciallo” come fece in tv, farli perdere con le “Lettere da Capri”, le donne viste, gli inganni e le paure, gli amori, le amicizie, gli incontri, il vino. Ne aveva di cose da raccontare Soldati. E lo sapeva anche fare in modo magnifico. Sposando la tradizione inglese più che quella italiana. Efficacia, realtà, gioia di vivere. Il suo piacere per la vita si rinnova nelle pagine, alimentandosi della quotidianità, del subitaneo contatto con le vicende. Giorgio Montefoschi ha parlato di un “pragmatismo del racconto” unito a un “forte senso morale”, associandolo allo scrittore britannico Graham Greene. Mario Soldati era stato anche sceneggiatore e poi regista per il cinema e la tv, mescolando linguaggi e mezzi. Saltando generi e argomenti, masticando tutto quello che gli capitava a tiro. La sua produzione letteraria è sconfinata, pirotecnica, spiazzante. La casa dello scrittore è impenetrabile, difesa da muretti bassi e da un anello di verde, foltissimo, che occulta e ripara. «È inutile bussare», ci dice una voce proveniente da una villa alle nostre spalle. Un uomo alto, allegro, rosso di sole preso mentre si occupa del suo giardino, barba bianca, occhi azzurri briosi, gesticola alla grande. Immaginate il vecchio Gassman in una riedizione del sorpasso di Dino Risi. Ecco è lui. Espansivo, pronto al racconto. È l’amico di Soldati a Tellaro, ce lo confermeranno in molti nella piazzetta. Ci invita in giardino. Marcello Taliercio, segretario generale della cassa di risparmio di La Spezia, in pensione. Nonno ischitano, commerciante in vini, con una goletta portava il vino nel borgo tellarese, fino a stabilirsi qui. «Quando lo raccontavo, Mario diceva: non sei tu, questo è Conrad…Marcello, questa è una storia di Conrad!». In un giardino a piccoli terrazzi, pieno di piante e sorprese, beviamo un vino bianco un po’ grezzo ma frizzante, freddo, ristoratore, sotto un sole che ci bastona. A poca distanza c’è un gatto che dorme in vigna. Tartarughe sparse in giro. «Che le devo dire della volta che c’era De Niro? E lui s’è dispiaciuto perché il mare non era limpido, invidiabile, come di solito. Del vino bevuto insieme? Della prima sera che la meravigliosa Stefania Sandrelli venne qui e della festa che Mario organizzò? Ah, quella me la ricordo bene, anche perché si beveva il mio vino. Come ricordo i giudizi della gente che non capiva la sua personalità. Dicevano: quello è matto. I matti erano loro che non gli stavano dietro. Lui era esplosivo, sempre in moto, pronto a tutto. Certo, aveva anche momenti di malinconia e rammarico. Credo che uno dei suoi più grandi rimpianti sia stata Alida Valli. Lei era fidanzata con un ufficiale poi morto in guerra, adesso non ricordo bene, se stavano girando insieme, forse, o se erano in trattative per girare, e lui nonostante l’adorasse non se la sentì di insidiarla in un tale momento di debolezza, poi le cose cambiarono, sa com’è la vita e puff, niente da fare. Lui non l’ha dimenticata più». A noi questa storia non può che far pensare al regista e voce narrante de “Le lettere da Capri” che a differenza di Soldati, però, insidia la procace Dorothea, la ragazza del giornalista americano Harry.  «Ho visto nascere i suoi racconti qui. Per un lettore credo che sia il massimo. Quelli di “Regione regina” ma anche quelli che poi uscivano in estate sui giornali. Lui aspettava la realtà come un cacciatore aspetta la preda. Scriveva sempre. Ma poi quando aveva queste scadenze imminenti: le novelle estive, aspettava “il fatto”. Ricordo benissimo “La mamma dei gatti”, non so se uscì sul “Giorno” o sul “Corriere della sera”, non so neanche in che raccolta si trovi, ma la storia è vera. Avevamo questa bestia: Pascià, sarà stato 40 chilogrammi di gatto. I ragazzi di Mario avevano pescato le acciughe o giocato a farlo e poi appeso agli ulivi i palamiti: aghi e filaccioni, compresi di qualche pescetto. Il gatto goloso si era attaccato. Eravamo corsi tutti, straziati dai lamenti. S’immagini questo gatto obeso attaccato all’amo: pietoso e comico insieme. Nessuno sapeva come fare, poi mia zia s’è data coraggio e ha operato il gatto con una lametta, restituendogli la libertà. Ecco, trovi, legga quel racconto e vedrà cosa è diventato». C’è un calembour che Soldati affidò a Giuseppe Conte – ora semifinalista allo Strega con il romanzo “La casa delle onde” – spiega il ruolo dello scrittore, arbitro come un Dio o il caso, nelle storie, e racconta in un lampo la vita persa tra obblighi e sollazzi: «Dogs like gods. Want to play». I Cani come dei. Adorano giocare, interpretare, dirigere. Nella traduzione il gioco si perde. Ma se guardate bene quel mischiarsi di lettere da dogs a gods, da animali a dei, lì c’è il divertimento, la magia, della letteratura, non solo di Soldati. A volte la chiave di tutto può stare nel salto di una sillaba, lui l’aveva capito.

[uscito su IL MATTINO, giugno 2005]

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