Aveva un nome da torero e una vita da romanzo di Dumas: piena d’avventure, epica e nessuna paura. Era morto molte volte come gli eroi veri, una per ogni fuga. Luis Sepúlveda, apparteneva a quella generazione latinoamericana costretta a reinventarsi la biografia e i ricordi negli aeroporti e sulle banchine delle stazioni europee, senza documenti, ma con una lingua che diveniva patria leggera e trasportabile: alle spalle il vuoto creato dalle dittature e nelle orecchie la memoria di voci e facce di chi era caduto, come il presidente del Cile: Salvador Allende, di cui fu guardia del corpo. Figlio letterario di Francisco Coloane – baleniere ed esploratore in Antartico, istruttore di marinai, pecoraio nella Terra del Fuoco, doppiatore compulsivo di Capo Horn – e fratello di Julio Cortázar – patriarca del romanzo sudamericano e della lingua degli esuli senza precipitare nel lamento –, da loro ha appreso tutto e l’ha messo in pratica: le sue pagine sono piene di ribellioni e vento, mare e lotte, una continua ricerca d’indipendenza e bellezza, che passa per i dispari – come Daniel Mordzinski, Ekaterina Olévskaya e Ryszard Kapuściński – e per il noir come scusa per restituire la realtà. Era uno scrittore di parte e un uomo del Sud, che non fingeva mai, poteva oscillare nelle gradazioni dei sentimenti, ma non in quelle politico-esistenziali: non indietreggiò mai, non ritrattò né prese ordini dal mercato, di cui si fece gioco. Si portava dietro un mondo d’irregolari autentici, un album zeppo di figure assurde che sembravano inventate e che invece erano il prodotto di una terra viva e sfuggente: dagli indios della foresta amazzonica – gli Shuar – fino a quelli della Patagonia: “terra di saccheggi e sogni”; aveva una immaginazione vivida e una vita piena, affollata di storie eretiche e fantastiche. Passò dalle prigioni di Pinochet – avversato e disprezzato –, venne torturato finendo nel cubo: una cella minuscola dove era impossibile stare in piedi, e solo l’intervento di Amnesty International gli diede l’esilio, e poi la militanza dispersiva e itinerante per mezzo mondo. Sue erano tutte le lotte possibili dal Nicaragua alla Spagna. Figlio di un cuoco e di una infermiera, generato non creato dal nonno anarchico, che a sua volta aveva lotte e fughe alle spalle e che gli leggeva Tolstoj e Cervantes, e che quando gli disse d’essersi iscritto alla gioventù comunista, rispose: «Luis, tu e i tuoi compagni lotterete per immaginare di essere liberi; io lotto per non dimenticare di esserlo stato», non potendo prevedere che al nipote sarebbe toccata una sorte peggiore della sua. In comune avevano gli ultimi, lo stare con loro, Sepúlveda scriveva per abitarne il cuore, come gli aveva insegnato Osvaldo Soriano: compagno d’esilio, resistenza e scrittura. Non un pazzo, ma un sognatore che si portava dietro deserto, insurrezioni e fantasmi guerrieri che faceva convivere con la dolcezza degli animali: usati per passare giustizia anche ai bambini. Un eversore calmo, che si era salvato per la scrittura – senza i suoi racconti mandati a un premio cubano non avrebbe attirato l’interesse di Amnesty International –: da giovane voleva essere il Dario Fo cileno, poi il golpe dell’undici settembre del 1973, la prigione e l’esilio ne fecero un romanziere e il testimone di una generazione cancellata. Sepúlveda è rimasto un hombre vertical, con ironia, e un grande senso dell’amicizia, riuscendo a scrivere senza distanziarsi dalla vita, era lo stesso nei noir come nelle favole e a cena, l’uomo che passava fratellanza, uguaglianza e libertà. Un romantico, un moschettiere di Dumas, col whisky, la penna e un sigaro, perso tra i marinai della Terra del Fuoco ai quali raccontava Mosca e Parigi, cosce e partito, avendone in cambio vascelli fantasma e scioperi epici di miniere ormai dimenticate o con un gaucho a farsi raccontare di un posto e di una mandria o con gli indios ai quali parlava di Beckenbauer e dei repubblicani spagnoli. Aveva un rapporto strettissimo con la terra e gli animali, che gli veniva dalle sue radici di libertà, ma non era un improvvisato ecologista che abbracciava alberi e firmava petizioni, no, era uno che aveva sentito il canto delle balene e anche visto come si catturano, che conosceva le rotte dei delfini e il sibilo dei serpenti. Con Sepúlveda si assenta un pezzo d’epicità con mille voci di costa e polvere, con lotte e canti, notti d’amore e caccia nell’oceano, e tutte col coraggio di non lasciarsi piegare dalle ingiustizie, pronte a opporsi a chiunque non sia in armonia con i principi che gli appartenevano: dalla difesa del più debole alla possibilità di vita elargita migliore a tutti e senza vanto. Somigliava al professor Sinigaglia, il protagonista de “I compagni” di Mario Monicelli, uno che non smetteva di occuparsi degli altri nemmeno stando in carcere. Non fu mai uno sprovveduto nella vita come nelle pagine. Era un uomo libero che sapeva dove andare anche quando fuggiva.
[uscito su IL MATTINO]