Gianni Minà è la scatola nera di un mondo felice che non c’è più: tutto quello che abbiamo amato, che lui ha cercato, raccontato e connesso con l’Italia. Per questo ora soffre a ricordare, soffre a darci il backstage di quegli anni, e lo fa con delle cartoline da quel tempo, piccoli frammenti di una enorme grandezza. Dentro queste cartoline che sono i capitoli del suo nuovo libro, “Storia di un boxeur latino” (minimum fax), ci siamo noi, dispersi tra le righe, a ricordarci di quando Minà portava in tivù scrittori, attori, registi, musicisti, chiunque avesse qualcosa di davvero interessante da dire e lo dicesse bene; erano un altro mondo e un’altra Italia, quella di oggi soffre a connettersi, è pigra e poco interessata agli altri, e i Minà vengono stroncati sul nascere. Per questo il suo libro di memorie diventa un juke-box per storie indimenticabili, momenti di bellezza assoluta, non solo dall’America Latina, ma da tutto il mondo. Minà ricorda e noi con lui, ci racconta la sua famiglia inseguita dai terremoti, i nonni e i genitori, il fascismo e prima Garibaldi e i Mille, pezzi della sua biografia, del suo carattere e delle sue passioni, senza le quali molti di noi non sarebbero stati spinti a saltare su un aereo e a replicare – in piccolo, per carità – quelle storie. Si capisce da che parte sta e ci rimane fino ad oggi, Minà, quando ci racconta la sua gioventù sportiva e le nuotate con Giovanni Pische – eroe di guerra rimasto sulla sedia a rotelle dopo che il suo aereo era stato abbattuto dagli inglesi a Pantelleria – che si tuffava, con le gambe legate con una camera d’aria, e insegnava a nuotare e vivere, a respirare e a essere liberi, un Ettore d’acqua. Gli altri maestri sono due napoletani: Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson, con un terzo che si aggiunse dopo, romagnolo, Sergio Zavoli, da loro prenderà il meglio: da Ghirelli la grazia nell’analizzare e muoversi tra potere e contropotere, da Barendson la capacità di montare e connettere e da Zavoli la facoltà di parlare a tutti, infine va aggiunta la curiosità e l’ostinazione che si portava da casa. Il resto è storia: della tivù e del giornalismo. Minà appartiene a quella generazione di italiani che andavano a prescindere, per conto loro, che si imbarcavano e incontravano i loro miti, quando i miti rispondevano a telefono e non avevano gli uffici stampa. Così nasce l’amicizia con Pietro Mennea (di cui svela un momento di debolezza), Muhammad Ali e Diego Maradona, i tre grandi dello sport che l’hanno usato come spalla, ma tanti se ne potrebbero aggiungere, come Marco Pantani che scelse Minà come confessore, perché Minà di coltellate non ne ha mai date, agiva diversamente tanto che può rievocare Kinshasa – l’incontro tra Ali e George Foreman – con l’allenatore Angelo Dundee che urla: «Fatelo passare, Chillo è frate mio». È stato un enzima che connetteva vite, Gabriel Garcia Marquez per farsi intervistare vuole conoscere Sandro Pertini? E che problema c’è – come sottolineò Massimo Troisi in uno dei momenti più
belli della storia della tivù italiana –: agendina, lettera P, telefonata. Il libro è uguale, scorre la storia: i Beatles stretti nella sua Seicento, o Fidel Castro in una intervista divenuta esempio, e citata da Tarantino e Oliver Stone. Oppure il Messico e i suoi muralisti con David Alfaro Siqueiros che fa una eccezione e gli fa un ritratto su carta – ora divenuto la copertina del libro – correggendogli i baffi mentre svela l’assassino di Trotzkij. E poi c’è il Brasile, i suoi cantautori, il legame tra i due paesi, in pochi sanno dell’importanza per il teatro e cinema brasiliano di Adolfo Celi, con l’oceano che sembra l’acqua di una piscina che fa da sfondo ad un’unica festa protratta negli anni con Ungaretti che va all’università di San Paolo a insegnare e Vinícius De Moraes che viene a Roma per fuggire dalla dittatura. Ci sono tante cene e moltissimi ristoranti e numerose partite di pallone – memorabili quelle sul campo di Gianni Morandi –, perché Minà ha fatto scorta di quella convivialità che portava Tom Jobim a scendere di casa e mangiare al ristorante, portandosi i contorni da casa, solo per incontrare la gente, e a condurlo a vedere questo spettacolo d’arte varia è Chico Buarque, il Dylan di Brasile, che poi a sua volta improvvisa una partita di calcio per strada a Parigi con gli africani. Ed è attraverso il calcio che Minà regala a noi, all’Argentina e a se stesso, una immortalità leggera, quella dei gesti coraggiosi fatti in incoscienza, quando si alza e chiede all’ammiraglio Lacoste dei desaparecidos, mosso da una frase di Osvaldo Soriano: «è sempre meglio sbagliarsi con le dittature, che avere ragione tacendo». È un libro pieno di vita, una vita allegra, di amore per gli altri, quasi un vangelo laico con storie che poi sono divenute le pale degli altari della nostra memoria. Minà c’ha segnato, e a sfogliare questo suo album dei ricordi, che potremmo continuare per ore, viene da pensare che meritava di più: dalla Rai e dall’Italia.
[uscito su IL MATTINO]