Sarri – Gattuso: è il “titulo”che fa il comandante

Per amare Sarri bisogna avere meno di diciott’anni come per leggere Nietzsche; Gattuso, invece, si può amare anche da vecchi, perché non promette prese di palazzo né rivoluzioni, ma “solo” qualche “titulo”. L’altra sera, dopo una partita scialba dove il Napoli era più squadra della Juventus giocando in modo allegriano, si sanciva il vero definitivo passaggio da un comandante all’altro, con la messa in soffitta – in massa – del sarrismo, dopo il passaggio troppo breve e senza “tituli” di Carlo Ancelotti. Insomma, Mourinho aveva ragione anche in questo: è il “titulo” che fa il comandante. Così Maurizio Sarri si rivela – per la piazza – in tutta la sua furbizia proprio nel momento più basso della sua nuova vita da manager juventino, e Gattuso trova un “titulo” – di merito – dopo anni di sfiga e tentativi, una odissea che, da Creta a Pisa passando per Milano, faceva di lui un ulisside senza favore del fato, un comandante da zattera con equipaggi arrangiati. Il comandate Sarri, che aveva saputo costruire una epica senza “tituli” con immaginarie prese di Palazzo e promesse di bellezza che ancora inebriano i ricordi dei delaurentiisiani e non, perde l’aura dopo aver perso la purezza ideologico-tattica, e da due anni è tutta una giostra di rinnegazioni e riscritture, da Londra a Torino, in un cambio di modulo e look, linguaggio (quasi) e obiettivi, da quando il trasformismo è diventato un’esigenza lo abbiam visto abiurare tutto e il suo contrario, in una sistematica cancellazione di sé e del Noi curvaiolo costruito a Napoli. Gattuso, invece, è un monsieur Malaussène che colleziona colpe, ogni tanto promette bellezza, ma poi si lascia vincere dal serrare i ranghi e stare stretti in attesa di poter uscire e segnare e poi vincere, tutta una attesa strategica e un gioco al ribasso, memore delle cadute prese con le panchine precedenti: non c’è mai un sussulto, ma solo una disciplina stropicciata da samurai calabrese, un nascondersi dietro l’umiltà ostentata fino alla noia, un accumulo di responsabilità con molti gesti da grandeur – più umani che calcistici in verità – però non promette Palazzi, al massimo un onesto appartamento in Champions League con una Coppa Italia in salotto. E la coscienza della sua provvisorietà, che si esplicita in campo, commuoverebbe anche Gianni Brera. Dove, il comandante Sarri – uno che a questo punto sembra uscito dai colonnelli presi in giro da Mario Monicelli – arringava e disegnava assalti con gol e spettacolo, il comandante Gattuso difende e spera, fa scavare trincee e chiede di stringersi a coorte, in un continuo venerdì santo. Siamo a cicala e formica. A Cardinale e  curato di campagna.  Il comandante Sarri era un produttore di epica senza etica né “tituli” – a Napoli – e gli gireranno anche le balle, per dirla con Paolo Conte, ma è il dato crudo: bellissimi e sfortunati assalti andati perduti come gol nella pioggia, costruiti da uno che parte dalla banca e in banca torna; mentre il comandante Gattuso ha etica ma zero immaginazione, è un mascheriatore di gioco: dice che si ispira a Sarri ma poi lo frega facendo l’Allegri, che poi lui sarebbe cholista di carambola e rimando – come racconta il campo – ma ha quasi timore a dichiararlo, tanto che così batte sia Simone Inzaghi che Antonio Conte in Coppa Italia, lui che parte dalla spiaggia calabrese e se la porta dietro sentendosi fuori posto sempre, in questo è comenciniano, lo era anche la sera di Berlino 2006. Due bugiardi, i comandanti, ma il primo negli intenti e il secondo nel gioco. Due tipi di meridionale. E, alla fine, la differenza la fa il “titulo” che riporta i napoletani in piazza oltre il catenaccio deluchiano, per l’antico bisogno di stare intorno all’uomo forte, che anche questa volta non c’è.

[uscito su IL MATTINO]

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