L’insostenibile leggerezza della superficialità

I tre grandi alberi, e con radici profonde, della letteratura italiana del secondo Novecento – Calvino, Pasolini, Sciascia – sono stranamente ricordati in modo superficiale, attraverso tre dettagli di scrittura che hanno trovato spazio nell’immaginario collettivo e si sono fissati nella memoria di tutti, così tanto da creare dei riflessi condizionati. Italo Calvino è la leggerezza, dalle “Lezioni americane”, citata quasi sempre a sproposito, e soprattutto malintesa, come sono malintesi gli “Io so” di Pier Paolo Pasolini e “I professionisti dell’antimafia” di Leonardo Sciascia. Questi tre scrittori, alberi, maestri, patriarchi, scegliete come immaginarli, hanno scritto molto di più, sono andati molto più a fondo di quelle etichette che gli hanno cucito sulla memoria, e se da una parte questa semplificazione porta a una lettura successiva, dall’altra è offensivo che vengano banalizzati in questo modo. È curioso che il successo di tre romanzieri, lontani da loro nella fabbrica della scrittura, ma non nei risultati, nel successo e nemmeno nelle collaborazioni e nelle amicizie, con alterne vicende – finirono anche per litigare (Calvino/Pasolini), raffreddarsi (Calvino/Sciascia) e non riuscire a chiarirsi (Pasolini/Sciascia) – passi attraverso un margine delle loro opere. Se Calvino le “Lezioni americane” le scrive per l’Università di Harvard nell’estate 1985, i due bignami-pop di Pasolini e Sciascia sono due articoli di giornale, per il Corriere della Sera, del ‘74 e dell’87, di quando i giornali erano fondamentali per gli italiani. Questi tre involontari autoritratti, sottoscritti dalle masse, vengono fraintesi e rovesciati, fino al punto di rinnegare anche il legame con gli scrittori. La leggerezza calviniana insieme all’insostenibile Elle dell’essere di Milan Kundera è usatissima nell’oralità come ammicco e chiosa, ed è uno status permanente con una continuità che spaventa – dai social ai siti pseudo-culturali fino alle vecchie pagine dei giornali – al punto che la leggerezza o è calviniana o non è: Valentino Rossi è leggerezza calviniana ma anche uno spritz lo è, stando al sentire comune. Perché in pochi arrivano alla fine della lezione dove c’è il secchio vuoto del racconto di Kafka. La magia del secchio che dovrebbe riempirsi di carbone ma rimane vuoto, con la densa aspettativa che possa accadere, tanto che Calvino decide di portarselo nel Millennio che stava arrivando. La leggerezza è tutt’altro che quella semplificazione diffusa, ma la miracolosa precarietà di una condizione di mezzo, tra il classico e il moderno, tra la scienza e la magia, appunto come il secchio che come la mano di Mario Brega: “po esse fero e po esse piuma”, quindi strumento di un cambio di condizione. Per questo mai nessuno si affanna a spiegare in che modo questa Signorina Leggerezza sarebbe di Calvino, gli appartenga, sia stata generata non creata dallo scrittore, o come si annodi ai suoi romanzi, fino al punto che secondo i più stiamo vivendo nell’epoca della leggerezza calviniana, ma senza sapere che cosa sia. Quasi un “Io so”, ma non ho le prove, che è tutto meno che un manifesto di leggerezza. Con le stragi ieri e i complotti oggi. L’Io so di Pasolini è scolpito nelle pagine di Facebook della maggioranza degli italiani di destra e di sinistra (definizione che i più colti o solo più anziani sottolineano mettendoci Norberto Bobbio tra parentesi), ma anche in moltissimi discorsi parlamentari o di improvvisati tribuni, è lo scudo per dire tutto e il suo contrario e per poi portarci, stracciato e vilipeso ma a mo’ di scudo, il corpaccione di Pasolini. Tutti sanno per non sapere nulla, e non avendo nessuna etica finiscono solo per pettinarsi con le parole del poeta. Tutti accusano per sentirsi innocenti, e qualche volta ci mettono le lucciole ad illuminare quella innocenza. Non va meglio a Leonardo Sciascia che con l’articolo “I professionisti dell’antimafia” ruppe un tabù costituzionale, come lo aveva rotto anche Pasolini, Calvino non ne rompeva essendo meno “politico” dei tre e molto scottato dopo i carri armati in Ungheria (1956). Ma Sciascia – che dei tre era il più pragmatico – non aveva menato per l’aria accuse, o descritto le nubi che per lo cielo passano, no, aveva inchiodato la magistratura alle sue mancanze che stava, infatti, andando in deroga rispetto alle regole anteponendo l’antimafia all’anzianità nelle promozioni, e come esempio ci aveva messo Paolo Borsellino, creando non poche polemiche. I due poi si chiarirono: lo diciamo per i complottisti figli dell’Io so, ma non proprio tutto tutto. Anche perché Sciascia era stato una guida letteraria e non solo per Borsellino e anche per Giovanni Falcone, nel suo romanzo “Il giorno della civetta” oltre a raccontare la mafia per la prima volta indicava la strada per sconfiggerla: seguire i conti bancari. Ma quell’articolo sui professionisti dell’antimafia divenne un manifesto/pretesto usato contro la magistratura e mai più col candore sciasciano né con la sua eretica altezza morale, ma sempre con una approssimata malizia da “Io so” e con un peso da macigno, quindi in assenza di leggerezza. Insomma, i tre più grandi scrittori del secondo Novecento italiano, i tre alberi che sorreggono ancora quel poco che resta dell’interpretazione del presente e di molto futuro, sono fraintesi e usati male. E, a giocare di cabala, si portano dentro una venatura di debolezza, forse dovuta alla guerra (1939-45) che attraversano, al punto che messi in fila per anno di nascita: Sciascia è del 1921, Pasolini del 1922 e Calvino del 1923, si può notare come appartengano a una generazione che si assenta presto rispetto alla media. Pasolini più giovane e per sempre di tutti: muore a 53 anni; gli altri due se ne vanno rispettivamente a 68 anni (Sciascia) e a 62 anni (Calvino), chiudendo il secolo prima che questo si fosse fatto breve – almeno secondo il disegno di Eric Hobsbawm –, ma in tempo per non essere capiti o per essere ricordati solo per un lembo d’opera, un pezzo di sé maltrattato e ridotto a bigliettino da visita per chi non trova il tempo per capirli, e che forse non li capirà mai, tanto ha già tutto quello che serve: l’immediatezza della superficialità.

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Note esplicative per i più giovani

Milan Kundera: emigrante e circense, bravissimo nel trapezio e nel cambio di lingua e confini.

Franz Kafka: assicuratore e pornografo, da lui discendono videogiochi e fumetti e Philip K. Dick.

Norberto Bobbio: grande stilista, genera il sarto Toni Negri e poi la casa di moda commerciale Veltroni.

Mario Brega: poeta dialettale romano, erede del Belli.

Valentino Rossi: poeta e cavaliere d’armi e di moto.

Carri armati in Ungheria (1956): invasione di campo che porta alla pochezza del Pd e all’autodistruzione per ego craxiano del Psi (Partito Socialista Italiano).

Eric Hobsbawm: aforista e padre del banditismo occidentale, invece di credere alle banche credeva agli uomini.

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