C’è chi l’estate la odia e chi no, e poi c’è chi è l’estate. Pelos La Capria, era l’estate. E anche la parte divertente delle interviste al fratello, il Dudù, Raffaele La Capria, scrittore e sceneggiatore e padre vivente dell’essere le due cose in Italia. Ma mentre il paese letterario e Paolo Sorrentino inseguono e vogliono essere Raffaele, lui vorrebbe essere Pelos, perché il fratello era tutto quello che si poteva ancora immaginare, fare e poi raccontare. Un pensiero cattivo e spassoso, una vertigine zingaresca prima degli “Amici miei” monicelliani. Pelos era l’estate nella sua manifestazione più alta di conquista del sé e spoliazione dalle inibizioni, nel racconto dell’andata e del ritorno, senza preoccuparsi dell’ultimo temporale per capire che per quell’anno poteva bastare, perché non bastava mai. «Che fai quest’inverno?». «Mi faccio un cappotto». Su Pelos non ci sono pagine wikipediane, e solo poche sfocate foto, c’è qualche film dove compare (“Ferdinando e Nunziata”, “Sabato, domenica e lunedì”, “Io speriamo che me la cavo”) e un film dove viene evocato (“Leoni al sole”), ma più che altro aleggia nelle interviste, ora, e nei libri, prima, del fratello, soprattutto quello principale (“Ferito a morte”) che ha segnato moltissimi e quelli che non ha segnato è perché erano insegnabili. Pelos passa sempre veloce, accentra, racconta, si vanta, e poi sfugge, perso dietro una bugia che è femmina non a caso. «Per dire com’era mio fratello Pelos e come affascinava l’immaginazione degli amici, ricordo che un giorno in barca, una ragazza che lui voleva conquistare, gli domandò che ora era e lui che aveva al polso un Rolex d’oro le rispose: È mezzogiorno, ma secondo me va indietro di qualche minuto; allora prese l’orologio e lo gettò a mare. E di bravate simili ne faceva davvero tante. È lui il Ninì di ”Ferito a morte”. Nel libro inventai che aveva dipinto di giallo la Grotta Azzurra, ma questa era una mia invenzione per descrivere il suo carattere. Dopo qualche anno Pelos mi disse: Ti ricordi di quando ho dipinto di giallo la Grotta Azzurra? E quando io gli dicevo guarda questo l’ho inventato io, non è mai successo veramente, mi ripeteva che invece si ricordava benissimo di averlo fatto lui». Pelos è l’aneddoto, che poi diventa leggenda: alcune cose le ha fatte e sono andate perdute, altre le ha raccontate e sono vivide nella memoria di molti. Pelos è Dioniso – habitué della Buca di Positano –. Pelos è il vento. Pelos è la leggerezza. Pelos è la stravaganza e la mondanità. Pelos è Pelos, unico anche nel nome, di una disparità che gli permetteva di essere l’esempio per Totò – si dice che avesse preso lui a modello per il personaggio stravagante che passeggiava per l’isola con un
pappagallo sulla spalla nel film “L’imperatore di Capri” – e uno dei pochi veramente in confidenza con Eduardo De Filippo tanto da permettersi di sfottere l’imperatore del Giappone e del Teatro italiano, anche perché con Pelos – beniamino della vita – si poteva pure litigare, tanto il suo motto era: l’importante è non ricordarsene. In realtà, Pelos, era l’eversione per il figlio di Eduardo De Filippo, Luca, di cui si era autoeletto precettore d’immaginazione e gioia, portandolo fuori dalla disciplina paterna, tanto da preoccupare Eduardo per l’eccesso di indipendenza instillato – il culmine era nel tormentone: «Fatte accattà ’o Giaguàr», che stava per spendi i soldi di tuo padre, sperpera, disperdi l’eredità. Ma alla fine l’amicizia con Pelos è molto servita a Luca per sopportare il tragico dell’ombra paterna: era una riserva di allegria, tornata utile anche per la recitazione. Tanto che si diverte molto in “Sabato, domenica e lunedì” – versione tivù – diretto da Lina Wertmüller che Raffaele La Capria sceneggia e Luca De Filippo recita, e dove Pelos diventa il fratello di entrambi, interpretando il fratello maggiore pazzo di Peppino Priore: direttore di banca e Pulcinella a teatro. C’è una scena dove realtà e finzione si incontrano, annodandosi, Luca guarda Raffaele/Pelos scendere le scale di corsa cantando e dice: «Questo è direttore di banca, ma che famiglia ’e pazzi». E la pazzia, come valore, ricorre spesso nel film. E non è meno pazzo in “Ferito a morte” dove è Ninì, che poi in una continuazione polifonica dal romanzo al film “Leoni al sole” di Vittorio Caprioli – sceneggiato con Raffaele La Capria – si scinderà in Mimì (dividendo le sue gesta col Sasà romanzesco) e in Frichì, a testimonianza della portata da demone dell’estate e del gioco. Nel romanzo è l’erede del latin lover Sasà, nella vita era quello che stava con le più belle: «Te la ricordi quando Sofia Loren arrivò seconda a Miss Italia? Io stavo con la prima». Questo era Pelos, che pescava e cucinava il pesce anche se nel libro si volta per non vedere agonizzare il polpo in barca. «Pelos era unico, eccezionale,
uno spiritosissimo mercurio shakespeariano. Pazzo e scatenato. A Rosaria, la governante, rubava i denti d’oro, Prima la blandiva: Con quei denti d’oro non avrai mai il sorriso che meriti. Sei bellissima, se me li dai ti farò avere in cambio una dentiera bianchissima. Lei che aveva un aspetto tremendo e bella non sarebbe mai stata si lasciava convincere e Pelos con i proventi dei denti d’oro andava in giro a gozzovigliare. Quando Rosaria capì l’inganno, incazzatissima, andò a lamentarsene con mio padre: Signoria suo figlio mi ha truffato, adesso posso mangiare soltanto le minestrine e lui, comprensivo: Ma Rosaria cara, non lo sai che è un mascalzone nato?». Così Dudù riassume le vertigini d’imbroglio di Pelos in una delle tante interviste dove lo evoca, ma in “Ferito a morte” è uno da affittare, perché capace di risolvere la noia portandola verso l’alba della bella giornata. Lieve e svagato. «Una società come quella napoletana, dice Rossomalpelo, produce spontaneamente i tipi come tuo fratello. Servono a fare apparire divertente una vita che in realtà è noiosa, rappresentano per pochi anni un miraggio di felicità». Pelos era un inventore di persone, una sorta di Topolino in “Fantasia” che trasformava tutto quello che incontrava, attrici e belle guaglione straniere, industriali del nord e tristi romani, animandoli nella riscoperta con la risata e lo sfottò. Come esempio valga per tutto: Eduardo, se uno come lui si stava, pensate gli altri. O la bassotta Gelsomina, cane di Pelos a San Remo. Che era la versione femminile del cane Guappo, a Roma, presente alle riunioni di “Nuovi argomenti”, farlo mettere nell’elenco dei presenti fu una “pelossata” di Raffaele: Guappo come Moravia e la Morante, impagabile. «Pelos era il piccolo dio Pan dei luoghi della nostra giovinezza, il rappresentante della napoletanità più civile (quella che non è mai volgare e mai “pittoresca”, e usa il dialetto solo come citazione amabile, intarsio raffinato)». Sempre Dudù La Capria che, negli anni, è andato ritoccando e arricchendo l’immagine del fratello. Una immagine da Olimpo, che non a caso sposa la dea Isa Barsizza, una icona, protagonista di molti film con Totò. Come l’aveva conquistata? Facendola ridere. E facendo ridere tutti fino all’ultimo momento. Quando era ricoverato, ormai molto malato, colpito da un tumore galoppante, La Capria lo va a trovare, e non sapendo come attaccare discorso con un Pelos agonizzante nel letto dell’ospedale di San Remo dice: «Ho notato che questo ospedale è molto pulito». E Pelos, che sta male, ma è pur sempre Pelos, risponde con una battuta degna di Stan Laurel: «Dudù, è meglio un bordello sporco che un ospedale pulito». E poco dopo, vedendolo in difficoltà perché lui non ce la faceva a respirare, con un sorriso sfottente, scostando la maschera dell’ossigeno, gli domanda: «Dudù, ti serve qualcosa?». Portandolo lontano dal dolore che stava provando. Non si sarebbe perso quella battuta per nulla al mondo, perché lo faceva ancora una volta arrampicare su uno yacht dopo una nuotata preceduta da un tuffo a volo d’angelo, insomma, una esibizione da circo d’acqua, al solo scopo di generare stupore e rimanere negli sguardi di tutti. Non a caso una delle citazioni preferite da Raffaele La Capria è una frase-mondo di San Gregorio di Nissa: «I concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce». E Pelos sembra inseguire lo stupore fino alla fine, quando dice al fratello Dudù: «Devi mettere sul “Mattino” questo necrologio: PELOS È MORTO, solo queste parole, e tutti a Napoli capiranno». E tutti capirono, anche se non pareva possibile, perché era come dire: È morto il dio Pan. Semplice.