Laurent Fignon: il ciclista con gli occhiali

Voleva essere un veterinario – come Marco Ferreri – ma poi ha preso a pedalare, cominciò con “Pédale-Combs-la-Ville”: prima gara, prima vittoria. Poi vennero due Tour de France (1983 e 1984) e un Giro D’Italia (1989) e un mucchio di altre gare, era quello con gli occhiali d’oro – come un racconto di Giorgio Bassani – e il codino da hippie. Non era uno travestito da artista, ma un artista vero. Biondo e col sorriso di sfida, uno che passando per le strade di Francia innamorava le lattaie; sarebbe venuto bene anche al cinema oltre che in tivù. Laurent Fignon, ciclista irregolare, il suo cantante preferito era Michel Polnareff: avete mai sentito o visto Michel Polnareff? Fatelo e capirete le fughe di Fignon. Che odiava i corridori, perché gli piaceva attaccare, bruciare, esagerare, il resto veniva dopo. Quando gli chiedevano delle sue vittorie migliori rispondeva con i nomi dei figli: Jérémy e Typhaine. Non sapeva e non voleva scegliere, pedalava. Vincendo e perdendo, ma non diventando mai un ciclista di gruppo.  «Il ciclismo si è trasformato in sport di difesa, scordando che la sua sola ragione d’essere è l’attacco». Era uno che stava da solo, antipatico, aveva risposte affilate, leggeva, era contundente. «Non dico che ai miei tempi fossimo migliori, eravamo diversi. Penso di aver vissuto il breve intermezzo hippie del ciclismo e ne sono fiero». L’addio al Tour lo diede ritirandosi sulla salita della Bonnette, da ultimo. Di proposito si era fatto staccare: «Volevo vivere un momento di tristezza e di grazia senza dividerlo con nessuno», come un ultimo giro da solo in una casa amata, prima di consegnare le chiavi. Non era mai banale, Fignon, dall’aspetto ai pensieri, quando il ciclista era un mestiere difficile. Si faceva la trafila, si scalavano le montagne e le posizioni, e si potevano avere anche delle opinioni contro se stessi: da gregario di Hinault – come raccontò Gianni Mura – «è fortunato ad avermi in squadra, altrimenti lo attaccherei tutti i giorni fino a farlo scoppiare». Poi lo aveva anche battuto, ma Fignon era impaziente non stronzo, quindi incapace d’odiare, e questo gli fece sopportare il furto subito da Moser al Giro d’Italia (’84), e anche la sconfitta al Tour (’89) da parte di LeMond: «Greg era l’originale e gli altri lo hanno copiato: Indurain, Ullrich, un po’ anche Armstrong». Perse per 8 secondi. A rivederlo correre bordeggiando il suo lato sinistro di strada, mentre perde quei secondi rispetto a LeMond, si soffre con lui, mentre serpeggia per il dolore, aveva un brufolo nel culo – come avrebbe potuto dire solo Beppe Viola – e il sangue sulla divisa, pedalava e soffriva, e alcuni ingegneri tedeschi calcolarono che quel tempo – ancora oggi il minimo per uno che perde il Tour – era dovuto al codino, all’aerodinamica, in realtà era un po’ più giù che dovevano guardare e misurare. Ma che ne sanno gli ingegneri tedeschi dei muratori dello sport? Insomma, Fignon, era un campione con una venatura di sconfitta, e una linea di sfiga, che gli ha impedito di vincere di più e di accostarsi al suo mito, che – claro – era Eddy Merckx. Perché rappresentava tutto: amore per il ciclismo, brio, coraggio, voglia di vincere. Anche Laurent, come Eddy, fu fermato e trovato due volte positivo (anfetamine). Ma lui ci giocava a golf nelle pause, amando Tiger Woods. C’aveva già visto la trasgressione. Sognava di rimanere chiuso in un ascensore con Monica Bellucci. E non chiedetegli il perché. Ai galà dello sport francese lasciava cadere dalle tasche l’argent – l’argià – che gli dicevano avesse accumulato. Sperperava anche nella finzione. Non sopportava i ciclisti piagnoni, «quelli che trovano sempre buone scuse per spiegare il loro cattivo risultato». E, lui, piangeva solo al cinema. L’unico rimpianto era per il campionato del mondo (anche lì vinse LeMond, era il 1989), e poi per non essere diventato un ornitologo, col tempo, pedalando, e andando in giro, da veterinario il desiderio s’era spostato dalla terra al cielo, dai cavalli agli uccelli, quasi che il ciclismo fosse un intermezzo tra due desideri. Disegnò biciclette – Auchan –, mise su un hotel – “Le Relais des Pyrénées-Centre Laurent Fignon” –, organizzò la Paris-Corrèze e disegnò e commentò il Tour de France. Non voleva vedersi morire, non fu accontentato.

 

[uscito su Lo Slalom]

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