«C’era una volta in America c’est moi», la formula pronunciata da Gustave Flaubert per “Madame Bovary”, fu usata da Sergio Leone per il suo film Odissea, pieno di riferimenti alla letteratura francese, da Guy de Maupassant a Marcel Proust, parafrasato da Enrico Medioli – uno degli sceneggiatori – in una delle battute cult del film: «Sono andato a letto presto», risposta alla domanda divenuta titolo del libro di Piero Negri Scaglione “Che hai fatto in tutti questi anni” (Einaudi), che Fat Moe rivolge a Noodles. Il resto è epica, cocciutaggine, ricerca, liti, tribunali, scrittura e riscrittura, fino ad ottenere la favola gangster che tutto il mondo conosce, uno dei grandi film della storia del cinema. Sergio Leone era un Omero western che sognava di uscire dal tempo (o come scriverebbe Medioli/Proust: dal Tempo), e per farlo si mise a cercare il meglio: dagli scrittori agli attori, dalle location ai produttori e dopo diciotto anni, e molti caduti alle spalle – tra cui Norman Mailer e Leonardo Sciascia –, ci riuscì. Si mosse nel fumo – e molto rimase nel film –, sublimò il cinema incastrando il mondo in ogni sequenza, fino a farne un sistema complesso come solo i romanzi di David Foster Wallace, possiamo dire che Sergio Leone inventò il cinema con le note, e soprattutto anticipò il mandare all’aria la normale cronologia temporale dei film che poi Quentin Tarantino sublimerà in “Pulp fiction”, e facendolo perse il pubblico e i distributori della Warner che lo fecero a pezzi, non ancora pronti a un linguaggio nuovo. Scaglione restituisce la complessità leonesca, ripesca attori e amici, collaboratori e storie che rendono ancora più imponente la complessità del film, già mito. E raccontandolo fa tornare Sergio Leone, il suo fantasma, con l’ostinazione del sogno d’una vita e la possessione dell’autentico cinematografico, come quando lo sceneggiatore Medioli gli chiede perché lui, perché uno che viene da un mondo lontano dal suo – quello di Luchino Visconti – e il regista gli risponde: «Ti pago per contraddirmi». Costringendoci a misurare il vuoto della sua assenza. «Sa cosa posso dire? Che è stato un lavoro massacrante. Ci sono film assassini, secondo me Sergio è morto di “C’era una volta in America”. Sei mesi a Cinecittà a 40 gradi, in Canada ce n’erano 30 sotto zero. Ci sono film che costano la vita al regista. Anche Visconti si è ammalato di “Ludwig”, Visconti è morto di “Ludwig”, Leone di “C’era una volta in America”». Ogni sceneggiatore contribuisce con un accento, un carattere, una scena fondamentale: Franco Kim Arcalli è l’estro che dal montaggio passa alla parola – e che non vedrà il film finito –; Leo Benvenuti e Piero De Bernardi sono gli sceneggiatori dell’amicizia e della commedia all’italiana; Medioli, l’intellettuale del cinema d’autore; e Franco Ferrini, giovane giornalista, la speranza per il futuro. Un arsenale di parole e immagini, di soluzioni narrative e svolte, che sono diventate pure scuola: citate, consumate, reinventate. Scaglione ha il merito di ricostruire la storia del film e dei suoi protagonisti, di risvegliare l’amore che in questi anni si è accumulato, di portare a galla i processi di creazione come i tentativi falliti, e rispondere a molte curiosità come il camion dei rifiuti del finale. Il suo è un gesto d’amore, che si sente in ogni pagina, un regalo agli spettatori del cinema, non solo quelli di Leone. Dalle ombre cinesi ai ventiquattro squilli del telefono, dal produttore Arnon Milchan – la cui storia è a sua volta cinematografica, che nel film è l’autista di Noodles nella scena dello stupro di Deborah – alla biografia di Harry Grey, pseudonimo di Herschel Goldberg, scrittore del romanzo “The Hoods” al quale il film è liberamente ispirato, tutto trasuda avventura. Le capacità filologiche di Scaglione mostrano il metodo d’acquisizione, elaborazione e poi cinematografico di Leone: forza di connessione e visionarietà. Ogni scena contiene un salto da somma di realtà a bugia-favola in pellicola, in un avvitamento spazio-temporale che rimette ogni cosa al servizio dei desideri leoneschi. Il suo essere patriarca da set fa nascere la magia, così se Federico Fellini era uno stanziale del sogno, Leone è un nomade che cuce il mondo, riducendolo a una lunga sequenza. Maniaco del dettaglio, ossessionato dalla perfezione, impaludato nell’utopia e cosciente dell’impresa, tanto da generare epica anche nei suoi collaboratori che parlavano del film come se fossero parte della sceneggiatura. Così, Claudio Mancini, il produttore esecutivo, il risolutore dei problemi di Leone, ricorda: «L’ho detto alla persona che frequentavo in quel periodo: per un anno e mezzo non ci vedremo, devo lasciare tutto e andare a fare l’ultimo grande film italiano». Ed è vero, dopo il cinema non sarà più uguale, non ci saranno più film simili, anche perché si ricostruirà tutto al computer. Leone è l’ultimo artigiano, il Michelangelo che si sporca le mani. Girando un film che chiude un’epoca nella finzione e nella realtà, sparge magia. Le vite di tutti quelli coinvolti non saranno più le stesse, James Woods dovrà spiegare a tutti quelli che lo incontrano che non lo sa se poi il senatore Bailey si butta nel camion dei rifiuti, il giovane attore che interpreta Noodles, Scott Schutzman Tiler, avrà la vita salvata e poi rovinata, De Niro ancora oggi gira con le musiche morriconiane del film sul telefonino, Joe Pesci diverrà il suo lisciarsi i capelli, Danny Aiello dovrà sentire «‘o masculone ‘e papà», come Burt Young «che la vita è cchiù strana da’ merda». Nel mondo di Leone basta una battuta, una inquadratura, pochi minuti per diventare eterni, nel mondo non di Leone ci sono voluti anni per riconoscergli la giusta importanza, con il libro di Scaglione che si candida ad essere il vangelo di questa gloria.
[uscito su IL MATTINO]